sabato 29 luglio 2023

Gesù piange sulla Chiesa dei mercanti

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 19, 41-47

In illo témpore: Cum appropinquáret Iesus Ierúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ. Et ingréssus in templum, cœpit eiícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo.

Séguito +︎ del S. Vangelo secondo Luca 19, 41-47

In quel tempo, essendo Gesù giunto vicino a Gerusalemme, scorgendo la città, pianse su di essa, dicendo: "Se in questo giorno avessi conosciuto anche tu quello che occorreva per la tua pace! Ma tutto ciò è ormai nascosto ai tuoi occhi. Perciò per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno con trincee, ti assedieranno e ti angustieranno da ogni parte; e getteranno a terra te e i tuoi figli che abitano in te, e non lasceranno in te pietra su pietra, poiché non hai conosciuto il tempo in cui sei stata visitata". Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare quanti lì dentro vendevano e compravano, dicendo loro: "Sta scritto: La mia casa è casa di preghiera. Voi invece ne avete fatta una spelonca di ladri". E ogni giorno insegnava nel tempio.

Tradizionalmente, nella Chiesa d'Occidente, la IX Domenica dopo la Pentecoste è anche detta Domenica dei guai di Gerusalemme. Infatti, nel brano di vangelo proclamato quest'oggi, leggiamo di Gesù - secondo quanto riporta l'evangelista Luca - che piange sulla Città Santa e annuncia i castighi che si sarebbero abbattuti su di essa. Si tratta di una profezia che, dal punto di vista meramente storico, si è realizzata con l'assedio di Gerusalemme avvenuto nel 70 d.C. per opera dei romani di Tito, ufficialmente per soffocare una rivolta molto bene organizzata degli zeloti, e che causò la distruzione del Tempio e la deportazione di tantissimi oggetti sacri che erano custoditi nel suo sancta sanctorum.

Storicamente il popolo di Israele ha rifiutato di riconoscere Gesù come il Messia, il Cristo promesso da Dio, non solo ai figli di Abramo, ma a tutta l'umanità, se è vero che il Messia è promesso fin dai primissimi momenti successivi al peccato originale, moltissimi secoli prima dunque della nascita dello stesso Abramo. Israele, il popolo dell'Antica Alleanza, è stato disperso per la sua invidia e per la sua cecità, per la sua superbia, e la Fede che salva è stata offerta a tutti gli uomini di buona volontà, a prescindere dalla propria razza - "Non c'è più giudeo nè greco" (Galati 3, 28) - e la Chiesa, della quale Israele era prefigurazione, è stata destinata ad abbracciare il globo intero, come predisse san Paolo a Roma: 

"Bene lo Spirito Santo ha parlato per mezzo del profeta ai padri nostri, dicendo: va a questo popolo e di' loro: Con le orecchie ascolterete, e non intenderete, e con gli occhi vedrete e non distinguerete, poiché il cuore di questo popolo è divenuto insensibile; sono duri d'orecchi ed hanno chiuso i loro occhi, affinché non avvenga che vedano con gli occhi e sentano con gli orecchi e con il cuore intendano e si convertano, ed io li sani. Vi sia dunque noto che questa salvezza di Dio è stata inviata ai Gentili, ed essi l'ascolteranno".

C'è certamente anche un significato spirituale che dobbiamo leggere in questo lamento di Nostro Signore su Gerusalemme, considerando che Gerusalemme rappresenta misticamente la Chiesa, cioè la Città di Dio. Tante volte, nel corso della storia, la Chiesa sembra avere tradito il proprio mandato ricevuto da Cristo, quello cioè di annunciare il vangelo e di battezzare. Certo, il Signore è lento all'ira, ma castiga nel momento più propizio, e questo sia per un aspetto di giustizia sia di un aspetto di misericordia. 

La giustizia e la misericordia, infatti, si distinguono tra loro solo per un aspetto formale: la giustizia dà a ciascuno secondo ciò che si merita, nel bene o nel male, mentre la misericordia dà a ciascuno secondo ciò di cui si abbisogna. Queste due virtù, che in noi possono agire in maniera indipendente l'una dall'altra, in Dio sono sempre intimamente unite, così che Dio non agisce mai da Dio giusto indipendentemente dal Dio misericordioso, e viceversa. Ogni castigo, cioè ogni male che Dio invia - e si badi bene: Dio non invia mai mali morali, che sono gli unici veri mali, bensì Dio invia mali fisici o spirituali, che sono mali solo relativamente a chi li riceve, non per il fine ultimo, che per Dio è sempre un bene -, arriva perché l'uomo lo ha meritato a causa della sua cattiva condotta, ma arriva anche perché ne ha bisogno, perché l'uomo, ferito dal peccato originale, non sa davvero comprendere cosa è bene e cosa è male finché non ne fa esperienza fino in fondo.

Questo è il grande inganno del diavolo: egli ci ha promesso di assaggiare l'albero della conoscenza del bene e del male, ma in realtà l'uomo, dopo aver gustato di quel frutto perverso, è diventato incapace di conoscere, di comprendere fino in fondo cos'è il bene e cos'è il male senza farne prima un'esperienza diretta. Questo non vuol dire che l'uomo abbia bisogno dell'esperienza per capire, ma è diventato sicuramente schiavo delle esperienze. Allora la profezia di Cristo della distruzione di Gerusalemme diventa per noi, oggi, allo stesso tempo minaccia di castigo e profezia di misericordia per la Chiesa che rischia di non predicare più il vangelo di Cristo, ma il falso vangelo del mondo.

Non a caso, questa profezia è seguita nel vangelo secondo Luca dallo stesso Signore che entra nel Tempio e scaccia i mercanti. Il Tempio non è fatto per essere frequentato dai mercanti, cioè da coloro che valutano in maniera quantitativa i beni, da coloro che scambiano risorse con altre risorse; il Tempio è invece fatto per i sacerdoti, cioè da coloro che ricevono gratuitamente da Dio un bene sommo - la grazia - e lo distribuiscono con altrettanta gratuità, e offrono a Dio il sacrificio di lode, il sacrificio di comunione, il sacrificio di comunione, cioè offrono interamente e quotidianamente se stessi e l'umanità per diventare santi e graditi a Dio. Guai a quei sacerdoti che frequentano il Tempio, dunque, e agiscono da mercanti, anziché da sacerdoti!

Gaetano Masciullo

sabato 22 luglio 2023

Fatevi degli amici con le ricchezze disoneste

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 16, 1-9

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: iam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii huius sǽculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 16, 1-9

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Vi era un uomo ricco che aveva un fattore, e questi fu accusato presso di lui di avere sperperato i suoi beni. Allora lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendimi conto della tua attività, perché ormai non potrai più essere mio fattore”. Questi disse fra sé: “Cosa farò ora, che il padrone mi toglie la mia attività? Non ho la forza per zappare, e mi vergogno di chiedere l’elemosina. Ecco, so io quello che farò affinché, quando sarò cacciato dalla fattoria, possa essere accolto in casa altrui”. Chiamati, quindi, tutti i debitori del suo padrone, disse al primo: “Quanto devi al mio padrone?”. E questi: “Cento orci d’olio”. E il fattore: “Prendi il tuo documento di debito, siediti e scrivi: cinquanta”. Poi disse a un altro: “E tu, quanto devi?”. “Cento staia di grano”. E il fattore: “Prendi la tua lettera e segna: ottanta”. Il padrone lodò il fattore disonesto che aveva agito con astuzia, poiché i figli di questo mondo sono più scaltri, fra loro, dei figli della luce. E io dico a voi: fatevi degli amici con le ricchezze disoneste, affinché, quando verrete a mancare, essi vi accolgano nelle loro dimore eterne».

Questa parabola è sicuramente tra le più difficili da capire e senza il sicuro riferimento dell'esegesi tradizionale della Chiesa saremmo davvero inclini a interpretare queste parole secondo i nostri gusti, come in effetti è accaduto, soprattutto in ambito protestante. Nell'VIII Domenica dopo Pentecoste, il tema della liturgia è sicuramente quello della santità del corpo, oltre che dello spirito: una purezza integrale che siamo chiamati a conservare in questa vita per meritare la beatitudine eterna. 

Questo tema è già anticipato nell'Ufficio delle letture tradizionale, dove appunto si legge dal primo libro dei Re l'episodio della costruzione del Tempio per opera di re Salomone e della promessa che Dio rivolge a Israele nella figura del re: «Io ho esaudito la tua preghiera, la tua supplica, che hai fatto davanti a me, ho santificato questa casa da te costruita: vi metterò il mio nome in eterno, e i miei occhi e il mio cuore saranno là tutti i giorni. [...] Ma se voi e i vostri figli vi allontanerete da me, e non mi seguirete con l'osservanza dei miei precetti e delle cerimonie che io vi ho proposto, ma andrete a servire gli dèi stranieri, ad adorarli, io sradicherò Israele dalla terra che gli ho dato, rigetterò dal mio cospetto il tempio che ho consacrato al mio nome, e Israele diverrà proverbio e favola fra tutti i popoli» (1Re 9, 3.6-7).

Il Tempio di Gerusalemme è immagine del corpo, che come scriverà san Paolo è chiamato a essere tempio dello Spirito Santo. Se il nostro corpo non è ripieno di Dio, allora per noi vale il giudizio che il Signore spiegò a re Salomone: "rigetterò dal mio cospetto il tempio che ho consacrato al mio nome".

Questo tema ci aiuta anche a capire la raccomandazione dell'apostolo Paolo, che la Chiesa oggi proclama nella prima lettura: Fratelli - scrive l'Apostolo - noi non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne. Se infatti vivrete secondo la carne, morirete; ma se, mediante lo Spirito, farete morire le opere della carne, vivrete. Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, infatti, sono figli di Dio. Voi non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, infatti, ma lo Spirito d’adozione a figli per il quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo stesso Spirito rende testimonianza alla nostra anima che siamo figli di Dio. Ma, se siamo figli, siamo pure eredi: eredi di Dio e coeredi di Cristo (Rm 8, 12-17).

In quest'ottica, dunque, dobbiamo cercare di comprendere la parabola che ci viene proclamata quest'oggi. L'uomo ricco cui si fa riferimento all'inizio è ovviamente un'immagine di Dio, mentre il fattore - potremmo forse chiamarlo oggi l'amministratore, oppure come va di moda, il manager - rappresenta ciascuno di noi. Ma questo fattore ha usato male i beni a lui affidati dal proprietario: allo stesso modo noi rischiamo di usare male i beni donatici da Dio, non soltanto i beni esteriori come il denaro, cui la parabola fa direttamente riferimento, ma tutti i beni che hanno a che fare con la corporeità e - perché no - anche i nostri beni intellettuali. Molto male si può fare con le idee cattive, con le idee sbagliate.

Arriva però il momento in cui il padrone licenzia il fattore, e questo licenziamento raffigura per noi la morte, inevitabile condanna, inevitabile pena per il peccato, in particolare per il peccato originale. Quel fattore si rende conto di avere sperperato i beni del Signore e, sebbene il licenziamento sia inevitabile, cerca di rimediare il più possibile all'ultimo momento, sapendo che dopo il licenziamento non sarà più possibile fare nulla per salvarsi agli occhi del padrone. Così vale anche per ogni uomo: bisogna cercare di rimediare alle proprie colpe in questa vita, perché dopo la morte viene il giudizio, e dopo il giudizio vengono i novissimi di inferno o paradiso, sulla base dei nostri demeriti o meriti.

Non ho la forza per zappare, e mi vergogno di chiedere l’elemosina. Queste parole manifestano una condizione tardiva del fattore: cioè il tempo si è fatto troppo tardi ormai per imparare a zappare e la sua condizione è troppo ben definita per iniziare a chiedere l'elemosina. Così, Gesù invita ogni uomo a prendere consapevolezza dei propri peccati anche se può sembrare troppo tardi, anche se siamo in una condizione di vecchiaia, di infermità fisica, oppure di grande prestigio sociale. La soluzione scelta dal fattore per riparare alle proprie malefatte è quella di condonare parte dei debiti che altre persone avevano contratto con il proprio signore. In altre parole, ha permesso ai debitori di ripagare secondo le proprie disponibilità: ecco perché il padrone loda quel fattore "disonesto", come traducono le versioni italiane, forse un po' impropriamente, che cioè non agisce secondo una cieca giustizia, ma secondo prudenza, e permette così che il padrone riceva una certa somma di denaro, piuttosto che non riceverne affatto a causa della situazione alternativa di insolvenza dei debitori.

Ora, cosa significa tutto questo in senso morale? Siamo chiamati a usare con prudenza i beni dello spirito, proprio come usiamo con prudenza i beni temporali. Ecco perché Gesù alla fine dice: i figli di questo mondo sono più scaltri, fra loro, dei figli della luce. L'uso prudente dei beni mondani ci viene spontaneo, tanto che a volte li usiamo a svantaggio del prossimo, anzi a danno del prossimo: san Tommaso d'Aquino, tra i vizi contrari alla prudenza, ne elenca uno che egli chiama "prudenza secondo la carne". Gesù ci invita a essere prudenti sia nei beni materiali sia nei beni spirituali: i primi non possono andare a detrimento della salvezza dell'anima.

E questo ci spiega perché Gesù conclude dicendo: io dico a voi: fatevi degli amici con le ricchezze disoneste, affinché, quando verrete a mancare, essi vi accolgano nelle loro dimore eterne. In questo modo, il Signore raccomanda il sostegno reciproco tra fratelli, all'interno della Chiesa, laddove possibile, a seconda delle disponibilità e della libertà di ciascuno, senza badare al modo con cui certi beni temporali possono essere stati procurati. I figli del mondo si procurano ricchezze con modi disonesti e per fini disonesti (Gesù parla di mammona iniquitatis, dove mammona non indica il denaro, ma il lusso), ma se questi beni materiali finiscono nelle nostre mani, noi possiamo usarli per un bene superiore: il denaro infatti è un mezzo - non è un fine - e come tutti i mezzi esso non è né buono né cattivo intrinsecamente. L'amore verso il prossimo, allora, assume grandissimo valore espiativo e ci permetterà di essere accolti nelle dimore eterne, cioè di conseguire la vita eterna.

Gaetano Masciullo

sabato 15 luglio 2023

Quali sono i buoni frutti di cui parla Gesù?


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 7, 15-21

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum cœlórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 7, 15-21

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Fate attenzione ai falsi profeti, che vengono a voi sotto l’aspetto di pecore, ma che nell’intimo sono lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Forse qualcuno raccoglie l’uva dalle spine o il fico dai rovi? Così ogni albero buono dà buoni frutti; mentre l’albero cattivo dà frutti cattivi. Non può l’albero buono produrre frutti cattivi, né l’albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che dà frutti cattivi sarà tagliato e gettato nel fuoco. Dunque, dai loro frutti li riconoscerete. Non chiunque mi dirà: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, questi entrerà nel regno dei cieli".

Nel brano di vangelo proclamato quest'oggi, Nostro Signore si rivolge in maniera particolare e anzitutto agli apostoli, cioè ai sacerdoti e ai vescovi della Chiesa, con un monito molto importante: "fate attenzione ai falsi profeti". Interessante notare come il Signore non stia mettendo in guardia la Chiesa docente dai falsi maestri, cioè da coloro che interpretano in maniera errata la Parola di Dio, ma dai falsi profeti, cioè da coloro che dichiarano di parlare per conto di Dio, ma che in realtà agiscono per conto di Satana. 

Infatti, san Pietro bene distingue queste due categorie nella sua prima lettera: "Vi furono però tra il popolo anche falsi profeti, come pure tra voi ci saranno dei falsi maestri, i quali introdurranno sette di perdizione e rinnegheranno quel Signore che li ha riscattati, tirandosi addosso una pronta perdizione" (1Pietro 2,1).

All'epoca di Gesù, sicuramente il pensiero era rivolto ai farisei, che sedevano sulla cattedra di Mosè ma abusavano della Legge, ma l'evangelista Matteo - mentre metteva per iscritto queste parole - sicuramente aveva ormai in mente i tanti eresiarchi che si erano insediati nella stessa Chiesa, in particolare i capi delle varie chiese gnostiche, che si presentavano al popolo come cristiani, eppure rinnegavano nelle parole e nelle opere il vangelo di Cristo. San Pietro aveva fatto un'esperienza diretta e tutta particolare di questa realtà, quando dovette confrontarsi con Simon Mago, il capostipite di tutte le sette gnostiche, come leggiamo negli Atti degli apostoli, che non a caso si chiama Simone, proprio come il primo papa. Possiamo dire che Simon Mago è stato a tutti gli effetti il primo anti-papa.

Interessante tuttavia analizzare il metodo di discernimento che Gesù suggerisce in questo brano di vangelo. Anzitutto, Gesù ci dice che i falsi profeti vengono vestiti con pelli di pecora. Questa infatti è la traduzione corretta sia dal greco sia dal latino: "sotto vestiti di pecora". In questo modo, Gesù ci dice che i falsi profeti sono soliti professare semplicità, povertà e cordialità, e mitezza. Ma la Chiesa è chiamata a vedere oltre, a discernere per capire cosa si nasconde sotto quelle vesti: essi sono "lupi rapaci". L'aggettivo usato in greco dall'evangelista Matteo - àrpaghes - indica una doppia voracità: sia di colui che è violento, del lupo che divora le proprie prede, sia di colui che è avido, che vuole derubare il prossimo per arricchire se stesso. Dunque c'è questa doppia finalità nel falso profeta: egli vuole arricchire se stesso, non solo di denaro e di beni terreni, ma anche di vanagloria, e poi - forse inconsciamente - egli vuole uccidere l'anima, cioè dannare coloro che vengono ingannati.

Ma come fare per vedere oltre le vesti di pecora? Ecco che Gesù ci indica il metodo: aspettare, e analizzare con molta attenzione i frutti, cioè le opere di costoro e i loro effetti. Il Signore afferma che un albero buono - cioè un'anima innestata in Dio - non può dare frutti cattivi, mentre un albero cattivo - etimologicamente in greco: "marcio" - non può dare frutti buoni - etimologicamente in greco: "belli a vedersi".

Eppure, come nota anche san Girolamo, leggiamo nella Scrittura che Mosè, considerabile certamente come un "albero buono", peccò nei pressi dell'acqua della contraddizione; san Pietro, durante la Passione, rinnegò Cristo; e il suocero di Mosè, che non credeva nel Dio d'Israele, diede a Mosè un buon consiglio. Come si spiega questa apparente contraddizione? Anche la filosofia e la logica ci insegnano che da ciò che è vero e buono possono seguire soltanto cose altrettanto vere e buone, ma da cose false e cattive possono seguire cose cattive ma anche cose buone. In fondo, è questo il segreto della Provvidenza, che sa trarre il bene anche dal male, e che sa scrivere anche sulle righe storte, come si dice popolarmente.

Però qui Gesù sembra dirci il contrario: un albero cattivo non può produrre frutti buoni. Questo perché il Signore non sta parlando di frutti buoni generici, ma di particolari conseguenze che solo un animo buono, cioè ripieno della grazia di Dio, può produrre. San Paolo ci avvisa chiaramente: "come infatti avete messo le vostre membra a servizio dell’impurità e dell’iniquità a scopo di malizia, così ora offrite le vostre membra per servire alla giustizia a scopo di santificazione. Infatti, quando eravate schiavi del peccato, non potevate servire alla giustizia" (Romani 6, 19-20). Allora i frutti di cui ci parla Gesù sono i frutti di cui ci parla san Paolo, e il quale non a caso usa la stessa parola: "frutto dello Spirito è la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la mansuetudine, la fedeltà, la modestia, la continenza, la castità" (Galati 5, 22-23). 

Allo stesso modo, san Paolo ci elenca i frutti cattivi con cui possiamo riconoscere sicuramente i falsi profeti: "Si riconoscono facilmente le opere della carne, che sono la fornicazione, l'impurità, l'impudicizia, la lussuria, l'idolatria, i venefici, le inimicizie, le contese, le gelosie, le ire, le risse, le discordie, le sette, le invidie, gli omicidi, le ubriachezze, le gozzoviglie, ed altre simili cose, riguardo alle quali vi avverto, come vi ho già avvertiti, che chi fa tali cose non conseguirà il regno di Dio" (Galati 5, 19-21).

Questi sono i frutti buoni di cui ci parla il Signore, e non è possibile che un falso profeta manifesti questi frutti, perché non c'è lo Spirito Santo in lui. Per distinguere i veri dai falsi profeti, dunque, basterà analizzare la persona in rapporto a questi frutti: se manca anche uno solo di essi, ecco che abbiamo la prova, la dimostrazione che egli parla non per conto di Dio, ma per conto del proprio ego, e quindi di Satana.

Gaetano Masciullo

sabato 8 luglio 2023

Cristo sfama con la Grazia e lo Spirito Santo l'uomo nuovo del Vangelo


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Marcum 8, 1-9

In illo témpore: Cum turba multa esset cum Iesu, nec habérent, quod manducárent, convocátis discípulis, ait illis: Miséreor super turbam: quia ecce iam tríduo sústinent me, nec habent quod mandúcent: et si dimísero eos ieiúnos in domum suam, defícient in via: quidam enim ex eis de longe venérunt. Et respondérunt ei discípuli sui: Unde illos quis póterit hic saturáre pánibus in solitúdine? Et interrogávit eos: Quot panes habétis? Qui dixérunt: Septem. Et præcépit turbæ discúmbere super terram. Et accípiens septem panes, grátias agens fregit, et dabat discípulis suis, ut appónerent, et apposuérunt turbæ. Et habébant piscículos paucos: et ipsos benedíxit, et iussit appóni. Et manducavérunt, et saturáti sunt, et sustulérunt quod superáverat de fragméntis, septem sportas. Erant autem qui manducáverant, quasi quátuor mília: et dimísit eos.

Séguito del S. Vangelo secondo Marco 8, 1-9

In quel tempo, radunatasi molta folla attorno a Gesù, e non avendo da mangiare, egli, chiamati i discepoli, disse loro: "Ho compassione di costoro, perché già da tre giorni sono con me e non hanno da mangiare; e se li rimanderò alle loro case digiuni, cadranno lungo la via, perché alcuni di essi sono venuti da lontano". E gli risposero i suoi discepoli: "Come potremo saziarli di pane in questo deserto?" E chiese loro: "Quanti pani avete?" E risposero: "Sette". E comandò alla folla di sedersi a terra. E presi i sette pani, rese grazie e li spezzò e li diede ai suoi discepoli per distribuirli, ed essi li distribuirono alla folla. Ed avevano alcuni pesciolini, e benedisse anche quelli e comandò di distribuirli. E mangiarono, e si saziarono, e con i resti riempirono sette ceste. Ora, quelli che avevano mangiato erano circa quattro mila: e li congedò.

I famosi miracoli della moltiplicazione dei pani e dei pesci sono certamente una prefigurazione del Sacramento dell'Eucarestia, che Nostro Signore Gesù Cristo avrebbe istituito più tardi, durante l'Ultima Cena, a beneficio della Chiesa universale. Scrivo al plurale, perché gli evangelisti riportano due miracoli di questo tipo, e quello che oggi la Chiesa proclama è il secondo in ordine di tempo. Il gesto di prendere i pani, rendere grazie, spezzarli e distribuirli è sicuramente un gesto che rimanda allo stesso racconto di Marco, laddove si legge: "prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro" (Marco 14, 22).

Ma cosa vuole spiegarci questo miracolo dell'Eucarestia, più di quanto già non fa il racconto stesso dell'istituzione oppure più di quanto non facciano i grandi discorsi eucaristici di Giovanni o delle lettere paoline ed apostoliche? 

Nella Scrittura i numeri non sono mai casuali, e i santi agiografi, tra i quali gli evangelisti, mettono in evidenza determinate cifre, determinati gesti, determinate dinamiche per alludere a significati più profondi, che vanno oltre i semplici avvenimenti storici. In questo caso, Marco sottolinea che gli apostoli avevano con sè soltanto "sette pani e pochi pesci". E già a tale proposito è utile fare una riflessione di tipo spirituale: gli apostoli erano così ammaliati dal discorso fatto da Gesù in quel luogo che arrivavano a dimenticare addirittura i bisogni del corpo, a dimenticare che le scorte di cibo andavano rapidamente esaurendosi. Davvero gli apostoli pregustarono quanto scriverà più tardi san Paolo: "Rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non abbiate cura della carne sì da destarne le concupiscenze" (Rm 13, 14).

I sette pani rappresentano, secondo l'autorevole insegnamento dei Padri, in particolare san Girolamo, i sette doni dello Spirito Santo, che Gesù aveva insegnato a chiedere a Dio tramite la bellissima preghiera del Pater noster. Comprendiamo dunque come l'Eucarestia, vero pane disceso dal Cielo, moltiplica e rinforza in noi ciò che lo Spirito Santo ha seminato attraverso i suoi doni, come Gesù moltiplica i sette pani e li distribuisce alla folla. Un altro particolare interessante: non è Gesù che direttamente distribuisce i pani alla folla, bensì lo fa tramite gli apostoli, così come nell'Antico Testamento Dio non diede direttamente a Israele la Legge, ma lo fece tramite Mosè. In questo modo la Scrittura sempre sottolinea l'importanza della mediazione della Chiesa per la distribuzione della grazia di Dio. L'Eucarestia produce in noi anche una sovrabbondanza di beni, e questa sovrabbondanza è raffigurata dalle sette ceste (ancora il numero sette), riempite dai pani avanzati. 

C'è un ultimo numero importante sul quale meditare in questo brano di Scrittura, ed è il numero delle persone che furono sfamate quel giorno da Gesù. Il vangelo ci parla di quattromila uomini. Il quattro è un numero ambivalente nella Scrittura. Da un lato, rappresenta l'umanità, perché quattro sono le virtù cardinali, cioè quelle che formano e perfezionano l'uomo da un punto di vista prettamente naturale. Dall'altro lato, i Padri hanno sempre intravisto nel numero quattro un simbolo del Nuovo Testamento, dei vangeli. Allora i quattromila uomini raffigurerebbero gli uomini nuovi, redenti da Cristo e rinati nel battesimo alla vita nuova della grazia. E l'Eucarestia è proprio l'alimento che nutre gli uomini della grazia e li sostiene in questa valle di lacrime.

Gaetano Masciullo

sabato 1 luglio 2023

La Legge deve penetrare il cuore dell'uomo


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 5, 20-24.

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Nisi abundáverit iustítia vestra plus quam scribárum et pharisæórum, non intrábitis in regnum cœlórum. Audístis, quia dictum est antíquis: Non occídes: qui autem occíderit, reus erit iudício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qui iráscitur fratri suo, reus erit iudício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fátue: reus erit gehénnæ ignis. Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 5, 20-24.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, sarà condannato nel Sinedrio. E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta.

Dio consegnò a Mosè sul Sinai il decalogo della Legge affinché fosse osservata da Israele con devozione e perseveranza. L'ordine dei dieci comandamenti divini segue un ordine di gravità, così che i peccati commessi contro il primo risultino più gravi di quelli commessi contro i seguenti, ma tutte le violazioni constano della gravità che uccide la grazia di Dio nell'anima dell'uomo.

Oltre alla gravità, i comandamenti furono scritti da Dio sul Sinai seguendo il criterio del "massimo grado" di ciascun genere di peccato. Così, quando Dio ordina nel quinto comandamento di "non uccidere", in realtà sta condannando e vietando non solo l'omicidio, ma tutti i gradi inferiori di quel genere di peccato che nell'omicidio trova la propria massima ed estrema manifestazione. Ecco perché la Chiesa insegna che il quinto comandamento non vieta soltanto l'omicidio, ma in generale tutte le manifestazioni d'iracondia che danneggiano il nostro prossimo. 

Questo insegnamento della Chiesa trova nel brano di vangelo proclamato quest'oggi il proprio fondamento scritturale. I farisei avevano ingessato la Legge, riducendo l'ottemperanza o la violazione di essa alla lettera, anziché al senso e al cuore delle parole utilizzate nella Scrittura. L'inevitabile conseguenza era che l'osservanza religiosa veniva limitata alla manifestazione esterna. Se si analizzano i dieci comandamenti, infatti, vediamo che tutti si riferiscono esplicitamente a manifestazioni esterne: il culto da tributare a Dio, non nominare il Nome divino, l'onore da tributare ai genitori, non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza nei tribunali, non invidiare. E' inevitabile che il massimo grado di un peccato assuma una dimensione più manifesta del suo grado più infimo, ma ridurre un peccato al suo massimo grado è un'eresia, che la Chiesa condanna attraverso la Scrittura. 

Se infatti limitiamo e associamo l'opera buona alla sua sola manifestazione pubblica, allora è inevitabile che l'anima viene così educata all'ipocrisia, cioè alla finzione e all'ostentazione del bene compiuto. Questo fu infatti l'atteggiamento dei farisei e degli scribi, che Cristo condannava. "Guardatevi dal lievito dei farisei, cioè l'ipocrisia" (Luca 12, 1).

La Legge deve penetrare nel nostro cuore, in tutti i suoi gradi. Per questo il Signore dice che la giustizia del cristiano deve essere "maggiore di quella degli scribi e dei farisei", deve cioè passare dalla lettera al senso. Ecco dunque spiegato perché Gesù dice: "Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico...". Gesù non è venuto a sminuire la Legge, ma a dare compimento a essa, e a spiegare profondamente il suo significato originario nei piani di Dio.

Nel caso del quinto comandamento - Non uccidere - Gesù ci indica tre gradi, oltre a quello massimo e manifesto dell'omicidio, e li indica tutti come gradi dello stesso vizio capitale, che è l'iracondia. Il primo grado è quello dell'ira che coltiva nell'anima dell'uomo il desiderio della vendetta. Gesù lo indica e lo condanna con le parole: "io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio". Nel dire che "sarà condannato in giudizio", il Signore dice che si tratta di un peccato grave, e quindi mortale se compiuto con deliberato consenso e piena avvertenza. Il secondo grado è quello del clamore, cioè della volgarità e della violenza nelle parole e nei gesti. Gesù condanna questo grado del peccato di iracondia con le parole: "Chi avrà detto a suo fratello: raca, sarà condannato nel Sinedrio", dove raca è una parola aramaica che oggi potremmo fare corrispondere a una parolaccia. Il terzo grado è quello dell'insulto e dell'offesa verbale diretta al nostro prossimo. Questo grado è condannato da Gesù nelle parole: "E chi gli avrà detto: pazzo; sarà condannato al fuoco della geenna". 

L'Ascensione, festa della Speranza

Sequéntia S. Evangélii secundum Marcum 16, 14-20. In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit in...