sabato 26 giugno 2021

Le tre fasi dell'ira

 



Il vangelo proclamato questa domenica 27 giugno 2021, secondo la forma liturgica straordinaria del rito romano, ci invita a riflettere su alcuni ostacoli che possono impedire l’esercizio della carità fraterna. Possiamo vedere che il brano evangelico odierno è suddivisibile in tre parti.

La prima parte ci parla della necessità di superare la giustizia dei farisei e degli scribi per essere salvi; la seconda parte ci parla dei tre gradi del peccato di iracondia; la terza parte ci parla della necessità della riconciliazione.

Queste tre parti sono naturalmente collegate da un filo rosso, che è la virtù della giustizia.

La giustizia, infatti, tra le quattro virtù cardinali (ricordiamo velocemente le altre tre: prudenza, fortezza, temperanza) è la "virtù sociale”, perché essa consiste nel dare a ciascuno ciò che gli spetta.

La giustizia dunque è quella virtù che orienta il bene nelle nostre relazioni: con Dio, il prossimo e il creato. Inoltre, la giustizia è quella virtù che va a lavorare sulla volontà degli individui.

Partiamo dunque dalla prima parte. Gesù dice: «Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli». Bisogna capire a cosa vuol far riferimento il Signore quando parla di “giustizia degli scribi e dei farisei”.

Gesù qui non sta dicendo che scribi e farisei sono totalmente estranei alla giustizia, ma solo che il loro modo di relazionarsi con essa è insufficiente e incompleto. La virtù della giustizia ha per noi cattolici un punto di riferimento molto chiaro: la cosiddetta legge naturale, che Dio ha reso manifesta nel decalogo sul Sinai (cioè con i dieci comandamenti).

L’Antico e il Nuovo Testamento si differenziano tra loro, tra le altre cose, anche per due prospettive diverse ma complementari della legge.

Infatti, l’Antico Testamento ci parla più della legge positiva della comunità, che spinge a rispettare la legge naturale tramite la minaccia delle pene, mentre il Nuovo Testamento ci parla della legge morale, che ci spinge a rispettare la legge naturale (e a perfezionarla nella grazia) tramite l’amore di Dio.

Le due prospettive sono complementari, altrimenti non saremmo più cattolici, bensì marcioniti, nel momento stesso in cui dovessimo ritenere superato ed eclissabile l’Antico Testamento.

La giustizia degli scribi e dei farisei è dunque tutto quell’insieme di precetti e divieti che Mosè diede per conto di Dio nell’Antico Testamento. E tuttavia Gesù dice che l’osservanza di questi non garantisce la salvezza eterna, perché in effetti il primato risiede nell’individuo, più che nella comunità: il giudizio divino è per il singolo, non per le collettività.

Ecco il collegamento con la seconda parte del brano evangelico: «Avete sentito che è stato detto agli antichi: “Non uccidere”; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che…».

La legge antica si limita all’ordine sociale, ma la legge nuova di Gesù va oltre, vuole educare i cuori umani secondo la volontà divina. La legge antica dissuade gli omicidi con la minaccia della pena capitale, ma non ne rimuove le cause, non rimuove ciò che spinge le persone a desiderare la morte altrui. La legge nuova invece va a ricercare proprio queste cause e la causa dell’omicidio è l’ira.

Per questa ragione, il Catechismo insegna che per violare il quinto comandamento – “Non uccidere”non è necessario uccidere fisicamente il prossimo, ma basta aggredirlo fisicamente o anche solo verbalmente.

Gesù infatti dice che chi si adira con il prossimo sarà condannato a giudizio; chi chiama il prossimo raca (espressione siriaca di rabbia, che significa letteralmente “uomo da nulla”) sarà condannato nel Sinedrio; chi chiama il prossimo “pazzo” sarà condannato al fuoco della geenna.

Questi tre gradi descrivono l’ordine con il quale l’ira si sviluppa nel cuore dell’uomo.

In un primo momento, c’è il concepimento di qualcosa: «Chiunque si adira con il proprio fratello». Questa prima fase ancora non vede il confronto con il prossimo, ma è interna alla coscienza del soggetto: l’odio genera il rancore e l’iracondia. E Gesù dice che già in questa fase si è passabili di giudizio, cioè già l’odio viscerale e il desiderio di vendetta è peccato mortale, anche se di gravità minore rispetto agli altri due, perché il giudizio, nel linguaggio giuridico ebraico, è il grado minore di condanna, che prevedeva una difesa da parte dell’imputato.

Nella seconda fase, c’è la manifestazione esterna dell’ira attraverso gesti ed esclamazioni. Anche in questa fase non c’è ancora il confronto diretto con il prossimo. La pena per questa fase, pur di per sé grave, è detta “del Sinedrio”.

Per alcune colpe, infatti, gli ebrei ricorrevano al Sinedrio, dove non era riconosciuto all’imputato il diritto di difesa, ma neanche la certezza della pena, in quanto i magistrati si riunivano per decidere se condannare o meno. Questo significa che la gravità delle manifestazioni di ira cambia molto da caso a caso e spetta al giudizio del confessore discernere sulla gravità dell’atto in questione.

Nella terza fase, c’è il confronto diretto con la persona odiata e Gesù condanna l’atto minimo che si può fare contro il fratello, per condannare evidentemente anche gli atti più grandi.

L’atto minimo è dunque l’offesa verbale: «Pazzo!»; l’atto massimo è chiaramente l’omicidio, il più grave dei peccati contro il prossimo. E la certezza della pena è resa chiara dall’espressione: «sarà condannato al fuoco della geenna».

Da qui dunque la necessità di riconciliarsi con il fratello prima di prendere parte al sacrificio dell’altare, riconciliazione che per noi cattolici assume una dimensione sacrale importante, di natura sacramentale, necessaria per prendere parte al sacrificio, cioè alla comunione eucaristica: anche per questo fondamento evangelico la dottrina perenne della Chiesa insegna che chi si comunica in stato di peccato, commette un peccato grave.

Gaetano Masciullo (blog)


sabato 19 giugno 2021

Duc in altum! - La Chiesa deve temere il mondo?

 Sulla tua parola getterò le reti - Omelie su Lc 5,1-11 ...

Il brano tratto dal vangelo secondo Luca e proclamato nella forma straordinaria del rito romano di questa domenica ci invita a meditare il mistero della natura missionaria della Chiesa.

La folla segue il Signore per ascoltarlo e acclamarlo, ma il Signore rifugge la gloria mondana. Giunto alle rive del lago di Tiberiade, che qui Luca chiama Gennezareth secondo l’uso locale, Egli vede due barche tirate a riva, poiché i pescatori erano scesi a lavare le reti. Matteo invece scrive che i pescatori «riparavano le reti» (Mt 4, 21).

Questi due gesti non sono certo incompatibili e infatti San Giovanni Crisostomo vede in entrambi il segno della vocazione – perché per capire a cosa siamo chiamati bisogna anzitutto purificare, lavare il cuore – e il segno della povertà di spirito – perché chi è povero «ripara le reti strappate, non potendo acquistarne di nuove».

La Pesca Miracolosa di Pietro e la pesca di San Paolo ...

E salendo sulla barca di Simone, Gesù chiede a questi di allontanarsi un poco dalla riva per insegnare alle folle. Questo gesto è denso di significati. Anzitutto, la barca di Simone rappresenta la Chiesa, che appartiene a Simone appunto perché al Papa, nella persona di Simon Pietro, sarà affidato il comando.

La Chiesa insegna alle folle “con distacco”: le acque del mare, nel linguaggio biblico, rappresentano la mentalità del mondo, la quale – come insegna il Catechismo – è nemica della salvezza individuale, insieme al diavolo e alla carne. La Chiesa dunque insegna la dottrina in mezzo alle avversità mondane e nonostante queste. Ma il distacco rappresenta anche la natura gerarchica e soprannaturale della Chiesa: la presenza viva di Cristo è mediata sacramentalmente dal sacerdozio.

C’è ancora un altro elemento da sottolineare in questo gesto di separazione della barca dalla riva. Scrive l’evangelista che Gesù «pregò [Simone] di allontanarlo un poco dalla spiaggia». L’atteggiamento di Cristo nei confronti del suo stesso corpo mistico, che è la Chiesa, è dunque quello dell’umiltà e della mansuetudine.

File:Il lago di Tiberiade (5269158338).jpg - Wikimedia Commons
Il lago di Tiberiade oggi

E l’atteggiamento di Simon Pietro è di pronta obbedienza e speranza, come si legge più avanti. Il Signore infatti chiede a Simon Pietro di prendere il largo – Duc in altum! La Chiesa, infatti, non è chiamata alla viltà, non è chiamata a preoccuparsi dei giudizi mondani, tantomeno a scendere a compromessi con questi, nella speranza fallace di attrarre a sé coloro che vivono secondo uno spirito mondano e anticristiano.

Se infatti la Chiesa dovesse insegnare le stesse cose che insegna il mondo, perché mai chi appartiene al mondo dovrebbe decidere di seguire la Chiesa? Rimanere nel mondo non farebbe alcuna differenza.

La sfida autentica di Cristo per la Chiesa è radicalmente differente. Prendere il largo significa sfidare le tempeste dell’odio e delle persecuzioni, ma anche dell’indifferenza, il grande male del nostro tempo.

Simone infatti risponde a Gesù: «Maestro, per tutta la notte abbiamo lavorato senza prendere niente, tuttavia, sulla tua parola, getterò la rete». L’indifferenza del mondo ai grandi quesiti fondamentaliPerché esisto? La vita ha un senso? Cosa c’è dopo la morte? – spesso scoraggia i “pescatori”, cioè i sacerdoti e i battezzati, che sono all’unanimità chiamati all’evangelizzazione.

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Nonostante questo “piattume del mare”, il Signore ci chiede di lanciare le reti della Parola. Ed ecco l’imprevisto, che ci indica come tutto è davvero nelle mani del Signore della storia, non nelle nostre mani: «E fattolo, presero una così grande quantità di pesci che le reti si rompevano». La rete si riempie così tanto che la barca di Simone chiede aiuto alla seconda barca, che ancora giaceva sulla riva, e che secondo il giudizio di Sant’Ambrogio rappresenta il popolo dell’Antica Alleanza, Israele, che è chiamato a unirsi alla nuova barca, la barca di Pietro.

L’evento è così straordinario che Simon Pietro è colto da timore, ma non da un timore umano, mondano, ma da un timore spirituale, quello che i teologi chiamano timore di Dio: «Visto questo, Simone Pietro si gettò ai piedi di Gesù, dicendo: “Allontanati da me, o Signore, poiché sono un peccatore”. Lo spavento infatti si era impadronito di lui e di quelli che erano con lui a causa della pesca: ed erano sbigottiti anche Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano compagni di Simone».

Il timore di Dio è il principio della sapienza e spinge l’uomo a temere il castigo per i propri peccati, ma soprattutto a tradire l’amore stesso di Dio. È di quest’ultimo tipo il timore che pervade Simone e che lo spinge a confessare le proprie colpe e a chiedere al Signore di allontanarsi, come si fa con l’amato, quando riconosciamo di averlo tradito e ci sentiamo indegni di stare perciò in sua compagnia.

Ma il Signore risponde con un atto di misericordia e una profezia di vocazione per la Chiesa universale: «Non temere: d’ora in poi sarai pescatore di uomini».

Gaetano Masciullo

sabato 12 giugno 2021

Il Sacro Cuore del Pastore Divino

 





Il venerdì dopo la solennità del Corpus Domini la Chiesa ha festeggiato la grande festa in onore del Sacro Cuore di Nostro Signore. I testi proclamati nella domenica successiva, cioé quest'oggi, indicata nel calendario liturgico del vetus ordo Missae come III Domenica di Pentecoste, si adattano facilmente ancora una volta alla memoria della festa del Sacro Cuore.

Se ricerchiamo il filo conduttore che lega le letture di questa domenica, certamente lo ritroveremmo in una virtù, la perseveranza. La devozione del Sacro Cuore di Gesù Cristo ci è stata trasmessa proprio per questo. Il cuore, nel linguaggio biblico, non significa l'amore così come è oggi comunemente inteso. Non significa cioé un sentimento, un'emozione, una passione dell'anima, mutevole e scostante in base agli eventi della vita. Il cuore denota anzitutto un atto della volontà, che accoglie in se stessa tutte le emozioni e le passioni, le educa (non le reprime!), le rende armoniche con la volontà del Padre. 

La volontà di Cristo è qui adorata sottoforma di un cuore di carne, perché tale devozione non si orienta tanto alla volontà di Cristo in quanto Dio, quanto alla volontà di Cristo in quanto uomo. Sappiamo infatti che, in quanto Dio incarnato, in Gesù Cristo convissero due volontà - quella divina e quella umana - eppure nessuna contraddì mai l'altra, ma anzi tutto ciò che il Signore disse, fece, pensò significò armonia perfetta tra l'alto e il basso, tra il trascendente e l'immanente, il divino e l'umano, l'infinito e il finito. Nella devozione del Sacro Cuore, adoriamo la volontà umana di Gesù perfettamente conforme alla volontà divina e la prendiamo a modello. 

Ed ecco che possiamo meditare anche sui simboli che adornano il Cuore di Cristo. Anzitutto c'è la corona di spine: essa significa la mortificazione dei pensieri, la capacità cioé di saper orientare bene le nostre cogitazioni, a trovare la pace interiore. C'è poi il taglio laterale, ricordo della lancia di San Longino che trafisse il costato, riferimento ai grandi Sacramenti del Battesimo e dell'Eucarestia, i veri e unici mezzi per perseverare nella grazia e nella verità. C'è poi la croce immersa in un fuoco: nella prova dobbiamo imparare a riconoscere la mano di Dio, che ci saggia o ci castiga per il nostro perfezionamento. E il fuoco della carità divina avvolge ogni cosa, per trasformarla, risanarla.

Questo cuore non è rimasto mai insensibile dinanzi alle infermità umane: lo vediamo bene nel vangelo odierno. La parabola di Gesù che lascia il gregge per cercare la pecora perduta ci sottolinea anzitutto la missione terrena primaria di Cristo: Egli infatti lasciò la condizione beata della divinità per prendere carne umana e riscattare l'uomo, sua creatura, dal peccato originale, per riportarlo con sè nell'ovile, cioé nella condizione beata del Paradiso. Ma fa riferimento anche alla Provvidenza costante, che agisce realmente nelle vite di ogni individuo, spesso in modi difficilmente percepibili e assai variegati, con il fine ultimo di ricondurci alla grazie e alla vita vera. Sta dunque a noi corrispondere a questo moto di amore e troviamo proprio nella devozione al Sacro Cuore l'indicazione sublime per comprendere la via da seguire.

Gaetano Masciullo






sabato 5 giugno 2021

Eucarestia farmaco di immortalità: cosa significa veramente?

 

I misteri fondamentali della Fede cattolica sono due: la Trinità – sulla quale abbiamo meditato la scorsa domenica – e l’Incarnazione, Passione e Resurrezione di Nostro Signore. Si chiamano misteri fondamentali perché tutti gli altri dogmi procedono da questi due, ma anche perché tutti i credenti devono conoscere e credere in almeno questi due dogmi per potersi definire cattolici. Si tratta di concetti di non facile comprensione, spesso facilmente fraintesi. È paradossale vedere tuttavia come, in una società dove si pretende il diritto all’istruzione e nella quale si sente dire che tutti possono avere pari accesso alla conoscenza perché tutti hanno le stesse potenzialità, quando si finisce a parlare di dogmi cattolici, molto spesso sono gli uomini di Chiesa i primi a dire che misteri come la Trinità sono troppo alti, troppo lontani dalla vita reale per poter essere compresi. E che in fondo si può essere cattolici anche senza conoscerli. Eppure, se la Chiesa antica decise di includere il Credo nel rito della Messa, fu proprio perché i Padri ritennero che tutti i fedeli – a prescindere da sesso, etnia, cultura, status, lingua, etc. – sono capaci di comprendere queste alte verità di Fede e che esse non sono relegate al mondo di lassù, ma si ripercuotono anche nel nostro modo di concepire la realtà esterna e nel modo di praticare la carità con il prossimo.

Questa domenica, la Chiesa ci propone di meditare su un altro grande mistero della Fede cattolica, la cui difficoltà è forse pari solo al mistero del Dio trinitario. La Chiesa festeggia infatti la solennità del Santissimo Corpo e Sangue di Gesù Cristo (Corpus Domini). Essa fu istituita dal papa Urbano IV nel 1264, circa trecento anni prima del Concilio di Trento, quando fu proclamato ufficialmente il dogma della transustanziazione: alla faccia di chi dice che solo in quest’ultima circostanza la Chiesa avrebbe “inventato” la nozione della presenza reale di Cristo nell’Eucarestia! Chi mastica un minimo di teologia cattolica, però, sa che i dogmi possono essere proclamati tali solo se «creduti da tutti, in ogni luogo e in ogni tempo» (San Vincenzo di Lerins) e sono stati proclamati proprio per difenderli dai “pensieri nuovi” che finivano per metterli in dubbio.

Già all’epoca di papa Urbano IV, infatti, c’era chi metteva in dubbio la dottrina tradizionale sull’Eucarestia. Per questa ragione, il papa chiese a un grande teologo domenicano dell’epoca, san Tommaso d’Aquino, di scrivere un inno eucaristico da proclamare nell’occasione della solennità odierna. Ancora oggi cantiamo la sequenza scritta da quel grandissimo teologo. In effetti, la sequenza – intitolata Lauda Sion e composta di 24 strofe – è un ottimo compendio della dottrina eucaristica e merita di essere compresa e meditata. In particolare, c’è una strofa della sequenza che merita particolare attenzione oggi, viste le derive teologiche che contraddistinguono il nostro tempo. Essa recita: «Lo ricevono i buoni / lo ricevono i malvagi / ma con ineguale sorte: / di vita o di morte. / È morte per i malvagi, vita per i buoni: / vedi di pari assunzione / quanto sia diverso l’effetto». Il Sacramento dell’Eucarestia è infatti strettamente connesso al Sacramento della Confessione: anche il Catechismo della Chiesa cattolica ci ricorda che non è permesso ricevere l’Eucarestia in stato di peccato mortale. Eppure, quanti oggi si ostinano a ricevere la Comunione pur senza essere in grazia di Dio? Quanti ricevono la Comunione senza saper fare un corretto esame di coscienza, necessario per confessarsi? L’Eucarestia, non a caso, è definita anche “farmaco di immortalità” e la parola greca farmakon ha un doppio significato: “medicina”, ma anche “veleno”. Come infatti assumere una medicina in misura o in condizioni diverse da quelle indicate dal medico può risultare in letalità, così assumere l’Eucarestia in condizioni diverse da quelle indicate dal Medico Divino (Gesù Cristo e gli Apostoli) comporta un atto sacrilego e peccaminoso. Ripartiamo dunque dalla meditazione di questa grande e grave Solennità per vivere la Fede secondo le intenzioni del suo divino fondatore.

Gaetano Masciullo

L'Ascensione, festa della Speranza

Sequéntia S. Evangélii secundum Marcum 16, 14-20. In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit in...