sabato 25 febbraio 2023

Quando lo Spirito Santo indusse Gesù in tentazione...


Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaeum 4, 1-11.

In illo témpore: Ductus est Iesus in desértum a Spíritu, ut tentarétur a diábolo. Et, cum ieiunásset quadragínta diébus, et quadragínta nóctibus, póstea esúriit. Et accédens tentátor, dixit ei: Si Fílius Dei es, dic ut lápides isti panes fíant. Qui respóndens dixit: Scriptum est: Non in solo pane vivit homo sed in omni verbo, quod procédit de ore Dei. Tunc assúmpsit eum diábolus in sanctam civitátem, et státuit eum super pinnáculum templi, et dixit ei: Si Fílius Dei es, mitte te deórsum. Scriptum est enim: Quia Ángelis suis mandávit de te, et in mánibus tollent te, ne forte offéndas ad lápidem pedem tuum. Ait illi Iesus: Rursum scriptum est: Non tentábis Dóminum Deum tuum. Iterum assúmpsit eum diábolus in montem excélsum valde: et osténdit et ómnia regna mundi, et glóriam eórum, et dixit ei: Haec ómnia tibi dabo, si cadens adoráveris me. Tunc dicit ei Iesus: Vade, Sátana: scriptum est énim: Dóminum Deum tuum adorábis, et illi soli sérvies. Tunc relíquit eum diábolus: et ecce Ángeli accessérunt, et ministrábant ei.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 4, 1-11.
In quel tempo, Gesù fu condotto dallo Spirito nel deserto per essere tentato dal diavolo. E, avendo digiunato quaranta giorni e quaranta notti, alla fine ebbe fame. E accostàtosi il tentatore, gli disse: "Se sei il Figlio di Dio, di’ che queste pietre diventino pani". Ma egli rispose: "Sta scritto: 'Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che procede dalla bocca di Dio'. Allora il diavolo lo trasportò nella Città Santa e lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: "Se sei il Figlio di Dio, gettati giù, poiché sta scritto: 'Ha mandato gli Angeli presso di te, essi ti porteranno in palmo di mano, affinché il tuo piede non inciampi nella pietra'". Gesù rispose: "Sta anche scritto: 'Non tenterai il Signore Dio tuo'". Di nuovo, il diavolo lo trasportò sopra un monte altissimo e gli fece vedere tutti i regni del mondo e la loro magnificenza e gli disse: "Ti darò tutto questo se, prostrato, mi adorerai". Ma Gesù gli rispose: "Vattene, Satana, perché sta scritto: 'Adorerai il Signore Dio tuo e servirai Lui solo'". Allora il diavolo lo lasciò ed ecco che gli si accostarono gli Angeli e lo servivano.

Di recente, i vescovi hanno deciso di cambiare la traduzione italiana del Padrenostro. Secondo la nuova versione, la penultima preghiera del Padrenostro - ricordiamo infatti che il Padrenostro è un insieme di sette invocazioni o preghiere - è stata modificata da non indurci in tentazione a non abbandonarci alla tentazione.

La ragione teologica che è stata avanzata per questo cambio di traduzione è il fatto che Dio non può indurre in tentazione, perché sommo bene. Piuttosto, sostengono i teologi che hanno spinto a questo cambiamento, bisogna intendere la preghiera come una richiesta di non essere abbandonati nella tentazione.

Eppure, questa visione è smentita dallo stesso brano di vangelo proclamato in questa prima Domenica di Quaresima. Nel brano odierno, infatti, leggiamo che "Cristo fu condotto dallo Spirito [Santo] nel deserto per essere tentato dal diavolo". In latino, le parole sono ancora più efficaci: ductus in, quindi inductus, "indotto".

Leggiamo che, effettivamente, fu Dio a indurre l'uomo Gesù nella tentazione del Maligno. Sia il verbo greco del vangelo - eisferein - sia il verbo latino - inducere - significano letteralmente "portare dentro". Allora, sorgono più domande e più riflessioni dalla meditazione di questo brano.

Com'è possibile che Dio induca in tentazione? Se Cristo fu indotto da Dio nella tentazione, perché ci ha insegnato a chiedere nella preghiera di non essere indotti? E ancora: se la prova della tentazione ci fortifica, è giusto desiderare la tentazione? E infine: è corretta la traduzione approvata dai vescovi non abbandonarci in luogo di non indurci? Proviamo a rispondere brevemente e cattolicamente a queste domande.

  • Com'è possibile che Dio induca in tentazione?

Dio non induce in tentazione nel senso che Dio tenta, ma nel senso che talvolta ci espone alle lusinghe del diavolo. Infatti, leggiamo nella Scrittura: "Nessuno, quando è tentato, dica: 'Sono tentato da Dio'; perché Dio non può essere tentato dal male e non tenta nessuno al male" (Giacomo 1,13). Bisogna allora capire perché Dio talvolta ci espone alle lusinghe del diavolo. La spiegazione è molto semplice: ogni volta che perdiamo la grazia con il peccato, ecco che perdiamo anche la protezione divina dagli assalti del diavolo e, nel fare questo, Dio ci induce (cioè ci espone) alla tentazione. Allo stesso tempo, Dio però ci chiede di resistere e di tornare a Lui, tramite la confessione e la comunione, la quale massimamente preserva l'uomo dalle tentazioni. E pertanto, le tentazioni sono da considerare come effetti e castighi che seguono il peccato.

C'è da dire però che molti santi furono tentati da Satana, spesso in modi clamorosi, con vere e proprie vessazioni: pensiamo a san Pio da Pietrelcina, san Filippo Neri, e così via. Certamente non furono tentati per castigo, ma si parla in teologia di attività straordinarie del demonio: cioè ci sono casi in cui il diavolo tenta per ordine di Dio i santi, per renderli più forti o anche per unirli maggiormente alla vita mistica di Cristo. Ma per quanto riguarda le tentazioni ordinarie del demonio, sappiamo che esse sono da considerare nella maniera che abbiamo detto.

  • Com'è possibile che Gesù, non avendo alcun peccato, sia stato indotto da Dio alla tentazione?

E' vero che Gesù Cristo, in quanto fu concepito esente dal peccato originale e in quanto non peccò mai di peccato personale, non ha mai meritato di essere esposto da Dio alla tentazione, eppure ciò avvenne. Ma questo si comprende solo se si ha bene in mente la missione di Nostro Signore su questa terra. Egli infatti si incarnò per espiare con la propria passione e la propria morte l'intero genere umano dal peccato originale, un peccato che poteva essere espiato solo con un merito infinito. Egli quindi prese su di sè il peccato originale e lo espiò come se fosse lui il colpevole, pur rimanendo innocente, e volle essere esposto alla tentazione nel deserto per insegnarci come compiere la penitenza e come resistere agli attacchi di Satana.

  • Perché, nel Padrenostro, Cristo ci ha insegnato a chiedere di non essere indotti in tentazione?

Dobbiamo sempre tenere in mente che le sette preghiere del Padrenostro sono le sette preghiere con cui si chiedono a Dio i sette doni dello Spirito Santo. Esse vanno dunque analizzate tenendo sempre in mente i sette doni dello Spirito Santo e le Beatitudini. Queste ultime, poi, ci indicano i meriti e gli effetti che i sette doni dello Spirito Santo causano in noi.

La penultima preghiera del Padrenostro, quindi, "non ci indurre in tentazione", è il modo con il quale Gesù ci ha insegnato a chiedere a Dio il dono dell'intelletto, che è uno dei due doni che lo Spirito Santo ci invia per sostenere la virtù della fede (l'altro dono che si applica sulla fede è la scienza).

E che cosa è il dono dell'intelletto? Essa è la virtù soprannaturale che ci aiuta a comprendere meglio quelle verità di fede che altrimenti il solo intelletto naturale non può comprendere.

E qual è allora la Beatitudine che segue il dono dell'Intelletto? La sesta beatitudine: "beati i puri di cuore, perché vedranno Dio". Come in ogni beatitudine, anche in questa sono indicati sia il merito sia l'effetto del dono in questione. Il merito che chi esercita l'intelletto ha dinanzi a Dio è quello di avere il cuore puro. L'effetto è quello di vedere Dio. Infatti, quando il cuore - cioè la nostra anima - è libera dai desideri mondani e disordinati, è cioè puro, allora può vedere Dio, cioè può conoscere, contemplare e meditare le verità di fede nella loro profondità.

E perché allora per chiedere questo intelletto soprannaturale dobbiamo chiedere a Dio di "non indurci in tentazione"? Ce lo spiega sant'Agostino nel commento che egli fa al Discorso della Montagna:

Se l’intelletto è ciò per cui sono beati i puri di cuore, preghiamo di non avere una doppiezza di cuore, andando in cerca dei beni temporali, da cui nascono tentazioni per noi.

Agostino di Ippona, De serm. Dom. in monte II, 11, 38.

Il desiderio degli averi temporali è infatti "radice di tutti i mali", come scrive san Paolo (Cfr. 1Timoteo 6,10).

  • E' giusto desiderare la prova della tentazione perché ci fortifica?

I Padri e i Dottori della Chiesa hanno sempre risposto all'unanimità: no, non dobbiamo desiderare le tentazioni. Non è vero che le tentazioni ci rendono più forti. Ciò che ci rende più forte è, anzitutto, la grazia di Dio: senza di lui, infatti, non possiamo fare niente. Ma soprattutto, la Chiesa ci insegna nella preghiera dell'Atto di dolore: "Propongo con il tuo santo aiuto [...] di fuggire le occasioni prossime di peccato". Dobbiamo fuggire quindi e non desiderare le tentazioni!

Quello che rende forte l'uomo è la preghiera, la grazia di Dio e le difficoltà della vita, ma le difficoltà della vita (le malattie, i lutti, il lavoro, le relazioni complicate) non sono automaticamente tentazioni, anche se il diavolo può provare a usarle contro di noi. Le difficoltà devono essere occasioni per meditare sulla nostra condizione umana, per comprendere che tutto in questa vita è "vanità di vanità", che solo Dio conta davvero.

  • E' corretta la traduzione dei vescovi: "non ci abbandonare alla tentazione"?

Io credo che la traduzione sia solo parzialmente corretta da un punto di vista teologico, ma assolutamente sbagliata dal punto di vista del testo - che dice chiaramente "indurre". E la traduzione dei vescovi mina alla base tutta la spiegazione detta finora che ha a che fare con i doni dello Spirito Santo e le Beatitudini, purtroppo. Attenzione, infatti: questa spiegazione che ho riportato proviene dalla Tradizione della Chiesa, che insieme alla Scrittura è una delle due fonti dell'autorità della Chiesa cattolica.

Ma la traduzione dei vescovi è sbagliata anche perché toglie la dimensione attiva di Dio. Mi spiego meglio. Se chiedo a Dio di non abbandonarmi nella tentazione, sto dicendo che nella tentazione ci finisco io da solo e che, se ci finisco dentro, spero che Dio mi liberi. Ma non è questo il senso della penultima domanda del Pater, come abbiamo detto!

Se invece gli chiedo di non indurmi in tentazione, sto dicendo che è Dio ad espormi alla tentazione. E quindi sto chiedendo a Dio di non desiderare le cose terrene, causa di tentazione, e di proteggermi dalle altre tentazioni, conseguenze del peccato, se sono già caduto, in attesa della riconciliazione.

Inoltre, chiedere a Dio di non abbandonarci alla tentazione non ha molto senso, se si considera che non è mai possibile che Dio abbandoni l'uomo - neanche chi ha perso la grazia di Dio: "se noi manchiamo di fede, egli però rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso" (2 Timoteo 2,13) - mentre è possibile, come abbiamo visto, che Dio ci esponga alle tentazioni del diavolo nel momento in cui si rompe il rapporto di grazia tra Lui e noi. E nella preghiera ha senso chiedere di evitare ciò che è possibile, non ciò che è impossibile.

                                                                                                                                           Gaetano Masciullo

martedì 21 febbraio 2023

Mercoledì delle Ceneri. Perché ci sono tre generi di penitenza?

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Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthaéum 6, 16-21.
In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Cum ieiunátis, nolíte fíeri sicut hypócritae, tristes. Extérminant enim fácies suas, ut appáreant homínibus ieiunántes. Amen dico vobis, quia recepérunt mercédem suam. Tu autem, cum jejúnas, unge caput tuum, et fáciem tuam lava, ne videáris homínibus ieiúnans, sed Patri tuo, qui est in abscóndito: et Pater tuus, qui videt in abscóndito, reddet tibi. Nolíte thesaurizáre vobis thesáuros in terra: ubi aerúgo, et tínea demolítur: et ubi fures effódiunt et furántur. Thesaurizáte autem vobis thesáuros in caelo: ubi neque aerúgo, neque tínea demolítur ; et ubi fures non effódiunt nec furántur. Ubi enim est thesáurus tuus, ibi
est et cor tuum.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 6, 16-21.
In quel tempo: Disse Gesù ai suoi discepoli: Quando digiunate non fate i malinconici, come gli ipocriti, che sfigurano il proprio volto per far vedere agli uomini che digiunano. In verità, vi dico che hanno già ricevuta la loro ricompensa. Ma tu, quando digiuni, profumati la testa e lavati la faccia: che il tuo digiuno sia noto, non agli uomini, ma al Padre tuo celeste, il quale sta nel segreto: e il Padre tuo, che vede nel segreto, te ne darà la ricompensa. Non cercate di accumulare tesori sopra la terra, dove la ruggine e la tignola consumano, e dove i ladri disotterrano e rubano. Procurate di accumulare tesori nel cielo, dove la ruggine e la tignola non consumano, e dove i ladri non disotterrano e non rubano. Poiché dov’è il tuo tesoro, lì è il tuo cuore.

Il Mercoledì delle Ceneri segna da tradizione l'inizio del periodo della Quaresima, il tempo di penitenza e di preparazione spirituale ai Misteri fondamentali della nostra salvezza, ossia la Passione e Morte di Cristo, che ci hanno redenti dal peccato originale e dai peccati personali, e infine alla Pasqua di Resurrezione.

Il tema di questo giorno non può dunque che essere quello portante del periodo quaresimale, ossia la penitenza. Ma cosa è esattamente la penitenza, secondo la dottrina cattolica?

Per comprendere, dobbiamo anzitutto partire dal presupposto che ogni peccato implica una colpa, che non implica solo un demerito agli occhi di Dio, ma anche una vera e propria macchia nella propria anima. Così infatti disse Dio a re Salomone, dopo che questi peccò: "Hai messo una macchia sulla tua gloria" (Siracide 47, 20).

Cosa si intende precisamente per macchia? Ebbene, dal momento che il peccato è l'adesione disordinata - cioè contraria all'ordine, al fine per cui le cose esistono - della volontà a qualcosa di esterno, e dal momento che la volontà - a differenza dell'intelletto - spinge l'uomo a unirsi alle cose che desidera, come quando l'olio lascia una macchia su un vestito con il quale è entrato in contatto, così una cosa esterna quando è usata male lascia una macchia nella volontà. E tale macchia permane nell'anima.

Leggiamo infatti nella Scrittura: "Non vi basta che peccaste a Peor e che fino al giorno d’oggi permane ancora in voi la macchia di quel peccato?" (Giosuè 22,17). La macchia del peccato è dunque qualcosa che rimane in noi.

Tutti i vizi, infatti, nascono dalla ripetizione di atti disordinati, cioè di singoli peccati, che poi mutano l'anima in maniera tale da desiderare spontaneamente quel genere di azioni: in altre parole, i peccati abituano l'anima a desiderare altri peccati dello stesso genere. L'unico modo con cui è possibile rimuovere la macchia del peccato è il Sacramento della Riconciliazione. Infatti, solo la grazia di Dio è talmente grande da potere rimuovere anzitutto il demerito agli occhi di Dio, ma anche la macchia che oscura quello che san Tommaso d'Aquino chiamava il "doppio splendore dell'anima umana" (cfr. Tommaso d'Aquino, S.Th. I-II, q. 86), ossia il lume della ragione che proviene dalla nostra natura e quello che ci viene donato da Dio.

E però non basta la Confessione per riportare l'uomo allo stato precedente all'atto peccaminoso. San Tommaso d'Aquino fa un esempio molto efficace per spiegare questo punto. Se uno si allontana dalla propria casa, e poi capisce che ha fatto male ad allontanarsi, non basta fermare il proprio movimento per tornare in casa propria: è necessario che faccia un atto contrario per ritornarci (cfr. Tommaso d'Aquino, S.Th. I-II, q. 86, a. 2, co.).

Così vale per la nostra volontà. Non basta fermare l'inclinazione al male tramite la Confessione e l'intervento della grazia: bisogna fare un moto contrario verso il bene, bisogna cioé educarsi a volere il bene per avviare un processo di virtù.

E questo processo contrario al moto del peccato è la penitenza. Bisogna considerare che Dio concede all'uomo tre tipi di beni: i beni del corpo - come il cibo e la sessualità - il beni dello spirito - come la conoscenza verità - e i beni esteriori - come i soldi, i vestiti, la casa, e così via. Quando usiamo male questi beni, commettiamo un peccato.

Così, per esempio, la lussuria è un peccato contro un bene del corpo, qual è la sessualità; la bestemmia o l'ignoranza sono peccati contro alcuni beni dello spirito; l'avarizia e la prodigalità sono peccati contro beni esteriori; e così via.

Dal momento che ci sono quindi tre generi sommi di peccato, perché tre sono i generi sommi di beni contro i quali si pecca, ci saranno conseguentemente tre generi di penitenza. E ce ne parla Gesù stesso nel capitolo 6 di Matteo: l'elemosina, la preghiera e il digiuno.

L'elemosina, quindi, è il moto contrario ai peccati contro i beni esteriori, quel moto che ci spinge a usarli ordinatamente; la preghiera è il moto contrario ai peccati contro i beni dello spirito; il digiuno, infine, è il moto contrario ai peccati contro i beni del corpo.

Gaetano Masciullo

sabato 18 febbraio 2023

Cosa è la Domenica di Quinquagesima?

Nella Domenica di Quinquagesima si ricorda il sacrificio di Isacco

Sequentia S. Evangélii secundum Lucam 18, 31-43.
In illo témpore: Assúmpsit Iesus duódecim, et ait illis: Ecce ascéndimus Ierosólymam, et comsummabúntur ómnia, quae scripta sunt per prophétas de Fílio hóminis. Tradétur enim géntibus, et illudétur, et flagellábitur, et conspuétur: et póstquam flagelláverint, occídent eum, et tértia die resúrget. Et ipsi nihil horum intellexérunt, et erat verbum istud abscónditum ab eis, et non intelligébant quae dicebántur. Factum est áutem, cum appropinquáret Iéricho, caecus quídam sedébat secus viam, mendícans. Et cum audíret turbam praetereúntem, interrogábat quid hoc esset. Dixérunt áutem ei, quod Iesus Nazarénus transíret. Et clamávit, dicens: Iesu, fili David, miserére mei. Et qui praeíbant, increpábant eum ut tacéret. Ipse vero multo magis clamábat: Fili David, miserére mei. Stans áutem Iesus iússit illum addúci ad se. Et, cum appropinquásset, interrogávit illum, dicens: Quid tibi vis fáciam? At ille dixit: Dómine, ut vídeam. Et Iesus dixit illi: Réspice, fides tua te salvum fecit. Et conféstim vidit et sequebátur illum: magníficans Deum. Et omnis plebs ut vidit, dedit láudem Deo.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 18, 31-43.

In quel tempo, dopo aver preso in disparte i Dodici, Gesù disse loro: «Ecco, noi andiamo a Gerusalemme, e tutto ciò che fu scritto dai profeti riguardo al Figlio dell'uomo si compirà. Sarà consegnato ai pagani, schernito, oltraggiato, coperto di sputi e, dopo averlo flagellato, lo uccideranno e il terzo giorno risorgerà». Ma non compresero nulla di tutto questo; quel parlare restava oscuro per loro e non capivano ciò che egli aveva detto. Mentre si avvicinava a Gerico, un cieco era seduto a mendicare lungo la strada. Sentendo passare la gente, domandò che cosa accadesse. Gli risposero: «Passa Gesù il Nazareno!». Allora incominciò a gridare: «Gesù, figlio di Davide, abbi pietà di me!». Quelli che camminavano avanti lo sgridavano, perché tacesse; ma lui continuava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù allora si fermò e ordinò che glielo conducessero. Quando gli fu vicino, gli domandò: «Che vuoi che io faccia per te?». Egli rispose: «Signore, che io riabbia la vista». E Gesù gli disse: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato». Subito ci vide di nuovo e cominciò a seguirlo lodando Dio. E tutto il popolo, alla vista di ciò, diede lode a Dio.

Siamo giunti al terzo tema penitenziale che la Chiesa propone con la Domenica di Quinquagesima. Dopo il peccato originale e il diluvio universale, ecco che si medita sull'evento che ha segnato la "terza età del mondo" - per usare il linguaggio di San Beda il Venerabile.

Quinquagesima, cioè cinquanta giorni prima della Pasqua: il tema penitenziale proposto è la vocazione di Abramo a fondare un "popolo nuovo", un popolo che rimanga fedele a Dio.

Dopo il diluvio universale, infatti, dopo la grave defezione che l'intera umanità aveva commesso nei confronti della giustizia, della carità e della fede nel Dio di Adamo, dopo il riscatto del genere umano nella figura di Noè e nella ripopolazione della terra nel nome della vera fede, ecco che Dio intende formare di fatto quella che è l'immagine della Chiesa, cioè un popolo nuovo, da strappare al mondo e confermare nella fede di sempre.

Infatti, Abramo è un caldeo, nativo di Ur in Mesopotamia (cfr. Genesi 11) - proviene cioè da un popolo semitico e politeista. E tuttavia Abramo ha in sè la predisposizione naturale ad accogliere la Rivelazione di Dio. Questa predisposizione comporta la pratica delle virtù naturali - prudenza, giustizia, fortezza e temperanza. Vediamo dunque in Abramo un modello per il cristiano. Per accogliere pienamente le tre virtù teologali - fede, speranza, carità - che non provengono dalle nostre forze (al contrario delle virtù cardinali), ma provengono dalla grazia di Dio, bisogna anzitutto vivere bene dal punto di vista umano e naturale.

Le virtù cardinali rimuovono gli ostacoli alla ricezione da parte di Dio delle virtù teologali. Abramo era un uomo prudente, come si vede dal fatto che, per salvare la propria vita e quella di sua moglie Sara dall'avidità del faraone, la presenta alla corte egizia come sua sorella anziché come sua moglie (cfr. Genesi 12, 10-20).

Abramo era un uomo giusto, come si vede dalle sue relazioni con il parente Lot. L'estensione delle proprietà di entrambi, in termini di greggi, armenti, soldati e sudditi, non permetteva a entrambi di convivere nello stesso territorio. Quando dunque scoppiò una lite tra i sudditi di Abramo e i sudditi di Lot, ecco che il patriarca reagisce con giustizia: piuttosto che innescare una guerra tra i due, decide di dividere il territorio in base alle esigenze di ciascuna tribù: "Non vi sia discordia tra me e te, tra i miei mandriani e i tuoi, perché noi siamo fratelli. Non sta forse davanti a te tutto il paese? Sepàrati da me. Se tu vai a sinistra, io andrò a destra; se tu vai a destra, io andrò a sinistra" (Genesi 13, 8-9).

Abramo era anche un uomo forte. Spesso immaginiamo i patriarchi come uomini anziani e barbuti, forse anche un po' deboli fisicamente. In realtà, i patriarchi dell'Antico Testamento, a cominciare da Abramo, erano uomini forti, erano sovrani e condottieri militari. E infatti, subito dopo, nel capitolo 14 di Genesi, leggiamo di una grande guerra che alcuni popoli pagani e crudeli avevano mosso l'uno contro l'altro e andavano a minacciare anche la pace e la concordia delle tribù di Abramo e di Lot. E in mezzo alle loro scorribande, infatti, i pagani riuscirono anche a catturare Lot e molti dei suoi averi e dei suoi sudditi. La reazione di Abramo è immediata dinanzi al pericolo: egli raduna le proprie truppe e con trecentodiciotto uomini piomba di notte sul nemico, lo sconfigge e libera il parente insieme alla sua tribù (cfr. Genesi 14, 1-16).

Infine, Abramo era un uomo temperante, che riusciva cioè a dominare le passioni del corpo. Dopo aver sconfitto la confederazione pagana, il re di Sodoma si reca da Abramo per tributargli onore e per proporgli uno scambio: i sudditi di Abramo in cambio di tutte le ricchezze di Sodoma e di Gomorra che i pagani avevano razziato. Ma Abramo rifiuta: "Alzo la mano davanti al Signore, il Dio altissimo, creatore del cielo e della terra: né un filo, né un legaccio di sandalo, niente io prenderò di ciò che è tuo; non potrai dire: io ho arricchito Abram. Per me niente, se non quello che i servi hanno mangiato; quanto a ciò che spetta agli uomini che sono venuti con me, [...] essi stessi si prendano la loro parte" (Genesi 14, 22-24).

Ecco allora che, dopo aver avuto prova della sua virtù naturale, Dio si rivela ad Abramo e gli promette una enorme discendenza, che è immagine della Chiesa, e la nascita di un figlio, che sarà poi chiamato Isacco, il quale è immagine del Redentore, Gesù Cristo. "Non ti chiamerai più Abram - dirà in seguito il Signore al patriarca - ma ti chiamerai Abraham, perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò" (Genesi 17, 5). I due nomi sembrano simili alle nostre orecchie, ma in ebraico Abram significa "padre esaltato", "padre forte", facendo così un rimando alla perfezione naturale di cui abbiamo parlato, ma Dio lo rinomina Abraham, "padre di una moltitudine": e questa è la perfezione spirituale che Dio promette.

Gaetano Masciullo

sabato 11 febbraio 2023

Cosa è la Domenica di Sessagesima?

Luke 8:4-15 - The Four Soils and the Field of Life ...

Sequéntia S. Evangélii secundum Lucam 8, 4-15.
In illo témpore: Cum turba plúrima convenírent, et de civitátibus properárent ad Iesum, díxit per similitúdinem: Éxiit, qui séminat, semináre semen suum: et dum séminat, áliud cécidit secus viam, et conculcátum est, et vólucres caéli comedérunt illud. Et áliud cécidit supra petram: et natum áruit, quia non habébat humórem. Et áliud cécidit inter spinas, et simul exórtae spinae suffocavérunt illud. Et áliud cécidit in terram bonam: et ortum fecit fructum céntuplum. Haec dícens clamábat: Qui habet áures audiénti, audiat. Interrogábant áutem eum discípuli eius, quae esset haec parábola. Quíbus ipse díxit: Vobis datum est nosse mystérium regni Dei, céteris áutem in parábolis: ut vidéntes non vídeant, et audiéntes non intélligant. Est áutem haec parábola: Semen est verbum Dei. Qui áutem secus viam, hi sunt qui áudiunt: deínde venit diábolus, et tollit verbum de corde eórum, ne credéntes salvi fiant. Nam qui supra petram: qui cum audíerint, cum gáudio suscípiunt verbum: et hi radíces non habent: qui ad tempus crédunt, et in témpore tentatiónis recédunt. Quod áutem in spinas cécidit: hi sunt, qui audiérunt, et a sollicitudínibus, et divítiis, et voluptátibus vitae eúntes, suffocántur, et non réferunt fructum. Quod áutem in bonam terram: hi sunt, qui in corde bono et óptimo audiéntes verbum rétinent, et fructum áfferunt in patiéntia.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 8, 4-15.
In quel tempo, radunandosi una grandissima folla di popolo e accorrendo gente intorno a Gesù da tutte le città, Egli disse questa parabola: "Andò il seminatore a seminare la sua semenza e, nel seminarla, parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli dell’aria la divorarono; parte cadde sopra le pietre e, nata che fu, seccò, perché non aveva umore; parte cadde fra le spine e le spine che nacquero insieme la soffocarono; parte cadde in terra buona e, nata, fruttò cento per uno". Detto questo esclamò: "Chi ha orecchie per intendere, intenda". E i suoi discepoli gli domandavano che significasse questa parabola. Egli disse: "A voi è concesso di intendere il mistero del regno di Dio, ma a tutti gli altri solo per via di parabola: affinché, pur vedendo non vedano e udendo non intendano. La parabola dunque significa questo: la semenza è la parola di Dio. Ora, quelli che sono lungo la strada sono coloro che ascoltano, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dal loro cuore, perché non si salvino col credere. Quelli caduti sopra la pietra sono quelli che udita la parola l’accolgono con allegrezza, ma questi non hanno radice: essi credono per un tempo, ma nell’ora della tentazione si tirano indietro. La semenza caduta tra le spine sono coloro che hanno ascoltato, ma a lungo andare restano soffocati dalle sollecitudini, dalle ricchezze e dai piaceri della vita e non portano il frutto a maturità. La semenza caduta in buona terra indica coloro che in un cuore buono e perfetto ritengono la parola ascoltata e portano frutto mediante la pazienza.

La settimana di Settuagesima ci ha ricordato il primo tema penitenziale, quello del peccato originale, riportandoci con la mente a quella che san Beda il Venerabile chiama la prima età del mondo. Adesso, con la Domenica di Sessagesima (sessanta giorni prima di Pasqua), affrontiamo il secondo tema penitenziale, quello del Diluvio universale, che ha sancito appunto l'inizio della seconda età del mondo.

Fuori di metafora, oggi la Chiesa ci ricorda che Dio castiga e che il castigo dei peccati è una diretta conseguenza del peccato, sia originale sia personale. All'epoca di Noè, l'umanità viveva nella malizia e nell'iniquità. "La terra è dunque piena di iniquità per causa loro, ed ecco io li sterminerò dalla terra"[mfn]"Repleta est enim terra iniquitate a facie eorum, et ecce ego disperdam eos de terra" (Genesi 6, 13b)[/mfn] - questa è la terribile sentenza di Dio che leggiamo nella Scrittura. Ancora oggi, gli uomini vivono per lo più in malizia e iniquità.

Interessante soffermarsi sulla parola iniquità, che è uno dei tanti nomi che troviamo nella Scrittura per indicare il peccato originale e gli altri innumerevoli peccati personali che da quello sgorgano, come da una fonte malata.

La parola iniquità viene dal latino non aequus - "non uguale". Questo significa che la condizione dell'uomo nel peccato originale comporta una situazione di disuguaglianza, sia nei riguardi degli altri individui sia nei rapporti con Dio. La giustizia originale, ormai perduta, comportava invece una condizione di uguaglianza tra gli uomini e Dio.

Non illudiamoci. Non è possibile ricreare l'uguaglianza su questa terra e nella nostra attuale condizione di peccatori. Tutte le utopie moderne politiche, tutte le grandi ideologie novecentesche che ancora oggi rischiano quotidianamente di trascinare l'uomo in guerre sanguinose quanto inutili - e mi riferisco al socialismo in ogni sua forma: dal comunismo più radicale al nazismo e al fascismo, fino alla "democrazia liberale" di stampo keynesiano - vengono scardinate alla base dalla dottrina cattolica: non è possibile costituire una società egualitaria su questa terra.

Di più: la dottrina cattolica ci dice che non è giusto creare una società egualitaria in questa vita. La giustizia somma, infatti, quella di Dio, ci ha messo in una condizione di iniquità, di disuguaglianza, e attraverso questa disuguaglianza è possibile per noi riscattarci (per quanto possiamo) nel compiere il bene.

Allora capiamo che la disuguaglianza è un castigo nel senso più nobile del termine: ciò che ci rende "casti", cioè puri. Noi spesso ci soffermiamo sull'idea di castigo come qualcosa di negativo, una crudeltà quasi gratuita e sadica, ineludibile. Ma chi di noi, quando era un bambino o una bambina, non è stato messo in castigo dalla mamma e dal papà quando faceva le marachelle? E chi di noi oggi, da adulti, percepisce quel castigo come un atto malvagio dei genitori? Credo nessuno.

Perché sappiamo che quella punizione aveva il fine di educarci e migliorarci.

A maggior ragione fa così Dio, che è Padre ed è un genitore migliore di tutti i papà e le mamme del mondo. La disuguaglianza - se è vero che diventa risorsa per migliorarci - diventa con questa prospettiva una ricchezza.

Gli uomini al tempo di Noè avevano fatto della propria disuguaglianza una iniquità, una fonte di malizia, e furono sommersi dal castigo del Diluvio, che fuori di metafora rappresenta l'annegamento nei propri vizi e la perdizione eterna dell'uomo peccatore, ma anche la purificazione dell'uomo giusto mediante il Battesimo

Noi possiamo cancellare la nostra iniquità solo con la grazia di Dio che proviene dai sacramenti, dalla preghiera e dall'esercizio della carità. E così la nostra condizione di iniquità - che pure non possiamo rimuovere del tutto, almeno fino alla Resurrezione dei corpi - diverrà una condizione di beatitudine, di felicità piena e autentica.

Gaetano Masciullo

sabato 4 febbraio 2023

Cosa è la Domenica di Settuagesima?

Una scena affrescata della Cripta del Peccato Originale, a Matera (Italia).

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum 20, 1-16.
In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis parábolam hanc: Símile est regnum coelórum hómini patrifamílias, qui éxiit primo mane condúcere operários in víneam suam. Conventióne áutem facta cum operáriis ex denário diúrno, misit eos in víneam suam. Et egréssus circa horam tértiam, vidit álios stantes in foro otiósos, et dixit illis: Ite et vos in víneam meam, et quod iústum fúerit, dabo vobis. Illi áutem abiérunt. Íterum áutem éxiit circa sextam et nonam horam: et fecit simíliter. Circa undécimam vero éxiit, et invénit álios stantes, et dicit illis: Quid hic statis tota die otiósi? Dicunt ei: Quia nemo nos condúxit. Dicit illis: Ite et vos in víneam meam. Cum sero áutem factum esset, dicit dóminus víneae procuratóri suo: Voca operários, et redde illis mercédem, incípiens a novíssimis usque ad primos. Cum veníssent ergo qui circa undécimam horam vénerant, accepérunt síngulos denários. Veniéntes áutem et primi, arbitráti sunt quod plus essent acceptúri: accepérunt áutem et ipsi síngulos denários. Et accipiéntes murmurábant advérsus patremfamílias, dicéntes: Hi novíssimi una hora fecérunt, et pares illos nobis fecísti, qui portávimus pondus diéi, et aestus. At ille respóndens uni eórum, dixit: Amíce, non fácio tibi iniúriam: nonne ex denário convenísti mecum? Tolle quod tuum est, et vade: volo áutem et huic novíssimo dare sicut et tibi. Aut non licet mihi, quod volo, fácere? an óculos tuus nequam est, quia ego bonus sum? Sic erunt novíssimi primi, et primi novíssimi. Multi enim sunt vocáti, páuci vero elécti.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 20, 1-16.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: "Il regno dei cieli è simile a un padre di famiglia, il quale andò di prima mattina a assumere degli operai per la sua vigna. Essendosi accordato con gli operai per un denaro al giorno, li inviò nella sua vigna. E uscito fuori, circa all’ora terza, ne vide altri che se ne stavano in piazza oziosi, e disse loro: "Andate anche voi nella mia vigna, e vi darò quello che sarà giusto". E anche quelli andarono. Uscì di nuovo circa all’ora sesta e all’ora nona e fece lo stesso. Circa all’ora undicesima uscì ancora e ne trovò altri e disse loro: "Perché state qui tutto il giorno in ozio?" Quelli risposero: "Perché nessuno ci ha presi". Ed egli disse loro: "Andate anche voi nella mia vigna". Venuta la sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: "Chiama gli operai e paga ad essi il salario, cominciando dagli ultimi fino ai primi". Venuti dunque quelli che erano andati circa all’undicesima ora, ricevettero un denaro ciascuno. Venuti poi i primi, pensarono di ricevere di più: ma ebbero anch’essi un denaro ciascuno. E ricevutolo, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: "Questi ultimi hanno lavorato un’ora e li hai eguagliati a noi che abbiamo portato il peso della giornata e del caldo". Ma egli rispose a uno di loro e disse: "Amico, non ti faccio ingiustizia: non ti sei accordato con me per un denaro? Prendi quello che ti spetta e vattene: voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te. Non posso dunque fare come voglio? O sei invidioso [è cattivo il tuo occhio] perché io sono buono? Così saranno ultimi i primi e primi gli ultimi. Molti infatti saranno i chiamati, ma pochi gli eletti".

La riforma liturgica che ha seguito il Concilio Vaticano II ha modificato il calendario religioso cattolico (non solo quello appartenente al rito romano) in maniera significativa. Tra le varie abolizioni c'è stata anche quella riguardante il Tempo di Settuagesima. Il colore liturgico che si inizia ad adottare dalla Domenica di Settuagesima (vedete che la parola ha la stessa forma di 'Quaresima' e significa quindi "settanta giorni prima della Pasqua") è il viola, il colore che rappresenta la penitenza. La Settuagesima introduce quindi alla penitenza propria del periodo quaresimale, inizia a predisporre le menti verso di essa.

Questa usanza si diffuse nella Cristianità (in particolare tra i benedettini, e poi da qui nel popolo) intorno al V secolo, quando si iniziò ad anticipare il digiuno quaresimale di una settimana (Quinquagesima), e tale pratica devozionale fu a lungo vista con diffidenza dalle autorità ecclesiastiche, le quali invece ribadirono che il digiuno dovesse iniziare dalla prima Domenica di Quaresima, non prima, tanto che ben tre sinodi - Orlèans I (511), Orange I (441) e Orange II (529) - proibirono l'uso del digiuno di Quinquagesima, "per mantenere l'unità delle usanze" (v. Atti del Concilio di Orlèans I, canone 26).

Intanto, tale pratica andò diffondendosi sempre più tra i monasteri benedettini - sia di ramo maschile sia di ramo femminile - soprattutto grazie all'opera di san Massimo di Torino (+ 420) e san Cesario di Arles (+ 543). Con il tempo, pertanto, sempre più vescovi furono persuasi dell'utilità pedagogica di preparare le menti e gli spiriti dei fedeli con il digiuno anticipato, anche per rendere completo il digiuno di quaranta giorni propriamente quaresimale, che se fatto iniziare dalla prima Domenica di Quaresima (escludendo le domeniche, nelle quali non si digiunava) e terminare al Giovedì Santo, non riusciva ad arrivare al numero quaranta.

Finalmente, grazie al papa san Gregorio VII (+ 1085), si stabilì formalmente che il periodo di digiuno e preghiera preparatorio alla Quaresima dovesse iniziare tre settimane prima di Quaresima: con la prima domenica di Settuagesima appunto. Ancora oggi, chi segue il calendario liturgico secondo la forma straordinaria del rito romano (la cosiddetta "Messa in rito antico" o "Messa tridentina", come viene chiamata erroneamente), celebra il Tempo di Settuagesima.

Ma qual è il significato di queste tre settimane preparatorie alla Quaresima?
Secondo la tradizione cattolica, il sette è il numero simbolico della perfezione. Anche il digiuno, pertanto, come spiegano i liturgisti medievali, per essere perfetto (cioè efficace a livello spirituale) doveva essere perpetrato per settanta giorni (7x10).

Ma c'è anche un altro significato. Gli antichi cristiani dividevano la storia in sette età del mondo - tra questi, spicca la figura di san Beda il Venerabile (+ 735): dalla creazione di Adamo al diluvio; dal diluvio alla chiamata di Abramo; dalla chiamata di Abramo alla consegna della Legge a Mosè; dalla consegna della Legge all'unzione di Davide; dall'unzione di Davide alla cattività di Israele in Babilonia; dalla cattività babilonese alla nascita di Cristo; infine, dalla nascita di Cristo alla sua parrusia, che indicherà la fine della storia. Sono sette periodi segnati, in qualche modo, dalla penitenza e dall'orazione, in attesa di "cieli e terra nuova" che saranno costituiti dopo il Giudizio di Cristo sul mondo. Se notate, infatti, sette sono anche le settimane di Pasqua, che vanno a simboleggiare la perfezione del "mondo nuovo" che verrà.

La prima età del mondo sulla quale meditare nella settimana di Settuagesima è dunque quella che va dalla creazione di Adamo al diluvio universale ed è contraddistinta dall'evento fondamentale - vero cardine della nostra fede cattolica - del peccato originale.

Non possiamo essere cattolici e non credere in questo dogma fondamentale: infatti, tutta la soteriologia cristiana (che ha il proprio apice nella Passione e Resurrezione di Cristo) trova la propria ragion d'essere nel peccato commesso dai nostri protogenitori. Il peccato originale è la causa prima della nostra condizione terrena di penitenti. Gesù è venuto per riscattarci con la sua morte da questa condizione originaria.

A differenza del peccato personale, infatti, quello originale ha rovinato non solo la nostra natura spirituale, ma anche quella corporale. E per di più, esso viene trasmesso da padre in figlio, come se fosse una tara genetica. Ogni uomo e ogni donna nasce colpevole agli occhi di Dio. Un peccato così grave, di valore infinito, non poteva essere espiato dalle forze finite dell'uomo: ci voleva un merito di espiazione altrettanto infinito. Ci voleva un "altro Dio" per poter espiare il peccato: ma non c'è altro Dio all'infuori di Dio. Dunque, il grande amore che Dio ha per l'umanità - sua creatura - lo ha spinto a voler assumere la carne umana per espiare la colpa - Lui sommamente innocente - al posto di Adamo.

Meditiamo dunque sullo spirito di penitenza che Adamo ed Eva, nostri progenitori, condussero per tutta la loro vita in seguito a quella colpa così grave. Adamo ed Eva morirono nella fede del Messia che era stato loro promesso (cfr. Genesi 3,15) e infatti oggi sono ricordati entrambi come santi. Sappiamo cosa significa il peccato originale? Crediamo che Cristo è venuto a riscattarci da una colpa "genetica" così invincibile che altrimenti ci avrebbe precluso le porte del Paradiso?

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Gaetano Masciullo

L'Ascensione, festa della Speranza

Sequéntia S. Evangélii secundum Marcum 16, 14-20. In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit in...