sabato 29 maggio 2021

Festa della Santa Trinità 2021


La Trinità è sicuramente il mistero più alto della teologia cattolica. La parola ‘mistero’ viene dal greco myo, che significa ‘socchiudere’: quando cerchiamo di osservare qualcosa che è in direzione del sole, socchiudiamo gli occhi, perché la luce dell’astro è talmente forte da abbagliarci e impedirci la vista. Sono infatti due le cause di cecità in un occhio sano: l’assenza di luce o l’eccesso di luce. La stessa cosa avviene per l’anima: l’occhio non vede per assenza di luce, ossia perché il peccato ostruisce, funge da ostacolo alla conoscenza divina; ma può darsi anche che non veda per eccesso di luce, perché l’intelletto umano è per natura impossibilitato a comprendere Dio nella sua interezza, che è qualcosa di infinitamente superiore. Ora la Trinità è la stessa essenza di Dio, dunque è impossibile da parte nostra comprenderla con perizia. Eppure, lo stesso Dio viene incontro al nostro limite e si è fatto conoscere attraverso le sue stesse parole, particolarmente in Cristo Signore, il quale ha detto: «Andate, dunque, e istruite tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e insegnando loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato» (Matteo 28, 19-20a).

Nel corso dei secoli, tanti esempi sono stati fatti per cercare di comprendere e trasmettere il concetto di “Dio uno e trino”. Il dogma cattolico insegna che Dio è unico – non ve ne sono altri - e uno – cioè non è divisibile in parti. Prima di dire che cosa è Dio, allora, bisogna capire che cosa non è Dio, così da liberarci dai modi sbagliati di concepire il Dio trino. Anzitutto, la Trinità non significa che ci sono tre individui divini, altrimenti cadremmo nel politeismo e questo è incompatibile con la nostra Fede: credo in unum Deum. Poi, la Trinità non indica tre modi di essere dello stesso Dio (così che lo stesso individuo quando crea si chiama Padre, quando salva si chiama Figlio e quando santifica si chiama Spirito): cadremmo nel modalismo, che è eresia condannata dalla Chiesa.

Ma allora che cosa è la Trinità? La Chiesa insegna che Dio è tre persone: Padre, Figlio e Spirito Santo. Una persona è qualcuno che esiste senza il bisogno di altro (sussistente) e che ha natura razionale: ecco perché gli animali, tecnicamente, non sono definibili come persone, al contrario degli uomini, degli angeli e di Dio. La teologia però definisce le tre persone divine anche come relazioni sussistenti. L’espressione, apparentemente difficile, non deve spaventare. I singoli uomini sono persone e, in effetti, ognuno di essi è sussistente, il che significa che per esistere non ha bisogno di qualcos’altro. Nel caso dell’uomo, però, le sue relazioni non sono sussistenti: ogni volta che ci relazioniamo con qualcosa di esterno (amiamo, odiamo, camminiamo, mangiamo, etc.) non possiamo dire che le nostre relazioni possono esistere senza di noi. Noi siamo corpi e tutte le nostre relazioni dipendono da noi.

Per Dio invece non è così: non c’è distinzione tra quello che Dio è e quello che Dio fa, altrimenti non sarebbe più un ente semplice. Allora possiamo dire che, a differenza nostra, Dio è le sue stesse relazioni. Io e il mio amico siamo due persone e due individui, mentre il Padre e il Figlio in Dio sono un individuo e due persone, perché le relazioni divine non dipendono da altro. Ma abbiamo anche detto che una persona è tale anche perché ha natura razionale. Allora queste tre relazioni non solo sono persone perché insieme formano l’unica sostanza divina, ma anche perché formano una sostanza intelligente.

Forse il modo migliore per capire la Trinità è quello di guardarci dentro. Infatti, come diceva sant’Agostino, la creazione è immagine di Dio e in essa possiamo trovare segni che ci aiutano a comprenderlo meglio. Come noi assomigliamo ai nostri genitori perché essi ci hanno procreato, così tutte le cose che sono nell’universo assomigliano in qualche misura alla Trinità, perché Dio ha creato tutte le cose. Ora noi vediamo che in noi ci sono tre facoltà principali: memoria, intelligenza e volontà. La nostra coscienza è dovuta alle relazioni che ci sono tra queste facoltà: ricordo di conoscere e ricordo di volere; so di ricordare e so di volere; voglio ricordare e voglio sapere. In questa triplice relazione c’è una sola coscienza e nessuna di queste relazioni viene prima dell’altra: così in Dio, nessuna relazione viene prima dell’altra e ogni relazione è fuori dal tempo, è eterna, e le tre relazioni formano un solo Dio.

In Dio, le tre relazioni si chiamano paternità, filiazione e spirazione. C’è poi anche una quarta relazione, che si chiama processione, e che attraversa, unisce le prime tre. Il Padre è la relazione divina da cui ha origine se stesso e il mondo e per questa ragione Dio è onnipotente e tale potenza è condivisa anche dal Figlio e dallo Spirito Santo (“ricordo di sapere e ricordo di volere”). Il Figlio è la relazione divina che riceve l’origine, quasi ad aprirsi sul mondo e all’Incarnazione, e per questa ragione Dio è onnisciente e tale onniscienza procede dal Padre ed è condivisa dallo Spirito Santo (“so di ricordare e so di volere”). Lo Spirito Santo è la relazione divina che procede dal Padre e dal Figlio e per questa ragione Dio è volontà del bene, che noi chiamiamo Amore o Carità (“voglio ricordare e voglio sapere”).  

Gaetano Masciullo

venerdì 21 maggio 2021

Solennità di Pentecoste 2021

                               



L'evento della Pentecoste significa la discesa e l'inabitazione dello Spirito Santo negli apostoli, i quali si erano rifugiati nel cenacolo dopo l'Ascensione di Cristo, timorosi delle persecuzioni da parte dei Giudei. In questo senso, la Pentecoste significa la nascita della Chiesa cattolica, perché gli apostoli, unti dallo Spirito di Dio, sono i primi vescovi. La parola 'vescovo' deriva dal greco ἐπίσκοπος, che significa letteralmente "colui che osserva da sopra". Questo nome designa dunque due aspetti della Chiesa. Il primo riguarda la dimensione a un tempo pastorale e dottrinale dell'autorità ecclesiastica: il vescovo infatti custodisce ("colui che osserva") il popolo di Dio, cioé si preoccupa che la dottrina insegnata sia retta non solo nei contenuti, ma anche nelle modalità di insegnamento. Il secondo aspetto riguarda la natura necessariamente gerarchica della Chiesa: infatti il vescovo non è colui che osserva dal lato, ma "da sopra".

Ma la Pentecoste è anche (forse anzitutto) l'inabitazione di Dio nell'uomo, convenientemente preparato alla sua ricezione. Lo Spirito Santo, infatti, non discese solo sugli apostoli, ma anche su Maria e sugli altri discepoli. La Pentecoste significa dunque la santificazione operata dallo Spirito Santo, l'ultimo atto ordinario di perfezionamento che si può ricevere da Dio in questa vita. Bisogna badare bene che tale atto divino non è per nulla scontato. La condizione necessaria per ricevere l'inabitazione divina è infatti lo stato di grazia: basta un solo peccato mortale per scacciare lo Spirito Santo dalla nostra vita. Da qui, l'importanza che la Chiesa ha sempre attribuito alla condotta morale: i vizi si scacciano con le virtù, le virtù aprono le porte ai sette doni dello Spirito Santo, i doni divini infondono uno stato di felicità autentica, che il Vangelo ci descrive con le otto beatitudini. 

Queste condizioni per ricevere lo Spirito Santo sono descritte dallo stesso Gesù nel vangelo proclamato quest'oggi, nella liturgia celebrata secondo il vetus ordo missae. Egli ci dice: «Chiunque mi ama osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e verremo da lui e faremo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Queste parole determinano un ordine: la condizione fondamentale è amare Dio, non a parole (siamo tutti bravi a dire di essere cristiani, ma questo non conta agli occhi di Dio; cfr. Mt 7, 21: «Non chiunque mi dice: "Signore, Signore" entrerà nel Regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre»), ma con i fatti appunto: «osserverà la mia parola», dove osservare significa vivere e mettere in pratica i comandamenti di Dio. 

Le parole di Cristo sono severe, ma proprio per questo vanno prese sul serio: «Chi non mi ama non osserva le mie parole» (Gv 14, 24a). Non possiamo esimerci dal fare i conti con questo giudizio divino, se ci diciamo cristiani cattolici. L'amore di Dio segue - attenzione: non viene prima! - la conformazione della nostra vita al Vangelo. Spesso si sente dire: "Dio ama tutti e non guarda ai nostri difetti". Un concetto bello, che ci fa sospirare un sospiro di sollievo, ma che non rispecchia esattamente quanto Cristo ci ha detto. E' vero che san Giovanni ha scritto: «Dio è amore» (1Gv 4,8b), ma è anche vero che san Paolo chiarisce il senso di questo amore: «[egli] vuole che tutti gli uomini siano salvati» (1Tm 2, 4). L'amore di Dio non è scontato e non è neanche uniforme: quanto più siamo conformi alla sua Parola, più egli ci ama. Questa non è opinione, ma giudizio unanime della Chiesa, sin dall'epoca dei Padri, e confermata dai Dottori e dai Papi nei secoli (come se non bastasse quanto leggiamo nel brano evangelico di oggi).

Solo alla fine, dice il Signore, «verremo da lui e faremo dimora presso di lui», cioè si può verificare l'inabitazione di Dio nell'uomo, gradino più alto della scala di santità cui tutti siamo chiamati: può Dio aver fatto creature razionali incapaci di goderlo? E questa inabitazione - una vera "Pentecoste individuale" - comporta l'infusione di sette santi doni: intelletto, scienza, timor di Dio, sapienza, consiglio, pietà, fortezza. Ecco perché Cristo dice: «Ma il Paraclito - parola che significa sia 'consolatore' che 'difensore' - lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14, 26). Dal dono dell'Intelletto, infatti, che serve a sostenere la virtù della Fede, mediante la quale crediamo le verità rivelate, discendono tutti gli altri doni, che sostengono le nostre virtù e orientano la nostra vita a vivere secondo la perfetta, meravigliosa volontà di Dio.

Gaetano Masciullo



sabato 15 maggio 2021

Domenica di Ascensione

 

Oggi, domenica 16 maggio 2021, la Chiesa festeggia in esterno la solennità dell’Ascensione di Nostro Signore Gesù Cristo. La Pasqua, l’Ascensione e la Pentecoste rappresentano tre momenti culmine della storia della salvezza e, a ragione, questi tre eventi possono essere accostati alle tre virtù teologali: la fede, la speranza e la carità. La Resurrezione del Cristo, infatti, dopo tre giorni nel sepolcro, ha manifestato in maniera soprannaturale che davvero la Croce non è stata un incidente di percorso, ma un atto voluto e preordinato da Dio, al fine di offrire al Padre un sacrifico così grande da riscattare tutti coloro che decideranno di accogliere deliberatamente il Signore dal peccato originale e personale.

Quaranta giorni sono trascorsi da quel meraviglioso giorno e gli apostoli sono stati progressivamente educati dalle apparizioni del Signore a disaffezionarsi alla presenza fisica di Gesù per dedicarsi interamente alla sua presenza mistica, ossia la Chiesa. L’Ascensione, dunque, può essere bene associata alla virtù della speranza o fiducia. La fiducia, infatti, è cosa diversa dalla fede. Se la fede è l'adesione dell'intelletto alle verità rivelate, ossia la conoscenza di almeno quei dogmi fondamentali che il solo intelletto naturale non può conoscere (unità e trinità di Dio, incarnazione, redenzione, etc.), la speranza o fiducia è l'abitudine affettiva ad aspettare i beni necessari da Dio. Come spiega san Tommaso d'Aquino, spesso alcune parole ricevono il proprio nome dalla causa e così la fiducia si chiama in questo modo perché è generata dalla fede. Infatti, noi aspettiamo ogni bene da Dio perché sappiamo per fede che Dio è provvidente. 

Ecco perché, nel vangelo odierno, il resoconto dell'Ascensione è anticipato da un rimprovero amaro da parte di Gesù nei riguardi degli apostoli: «[Egli] rinfacciò a essi la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano prestato fede a quelli che lo avevano visto resuscitato». La fede dunque è condizione necessaria per avere speranza. Ma è anche vero che le virtù teologali non si raggiungono con le proprie umane forze, ma le si ricevono solo per volontà divina. E' necessario pertanto il ministero apostolico: «Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo: chi poi non crederà, sarà condannato». Un monito duro, che deve farci riflettere e farci crescere. Attraverso il Battesimo riceviamo la grazia della fede. Certamente, tale fede deve essere apparecchiata dalla predicazione e da segni, anche straordinari, da parte dei ministri di Dio. La predicazione infatti apre alla ragionevolezza della nostra fede, instilla gli anticorpi contro gli errori e le false dottrine del mondo, costringe la volontà a desiderare il perfezionamento morale. 

Se il Signore non è più costantemente vicino a noi con la presenza corporea, lo è certamente con la presenza della divinità. Eppure, anche fisicamente il Signore ha desiderato essere vicino a noi, nell'Eucarestia, se pensiamo che ogni ostia consacrata è Cristo vivo e vero. L'Eucarestia compendia in maniera mirabile fede e speranza. Infatti, per sola fede sappiamo che quell'ostia è trasformata sostanzialmente nel corpo, sangue, anima e divinità di Gesù Cristo: «Sulla croce era nascosta la sola umanità, mentre qui [nell'Eucarestia] si nasconde anche l'umanità», così canta l'inno Adoro te devote. Eppure, da un così grande mistero aspettiamo il bene spirituale: ecco la dimensione eucaristica legata alla speranza. Il Signore ascende al cielo, verso l'alto, perché verso l'alto dobbiamo orientare i nostri desideri ultimi, cioè verso il vero Bene, che non muore mai.

Gaetano Masciullo

sabato 8 maggio 2021

Quinta Domenica dopo la Pasqua: Gesù promette ancora l'Ascensione e la Pentecoste

 


Il vangelo proclamato nella forma liturgica straordinaria del rito romano si pone ancora in continuità con le promesse dell'Ascensione e della Pentecoste fatte da Gesù. Siamo ormai nella settimana dell'Ascensione, che festeggeremo giovedì 13 maggio, e l'attenzione della Chiesa si volge tutta al fine ultimo della salita del Signore al Padre, ossia la promessa dello Spirito Santo, che nel Battesimo si estende a tutti i credenti e trova compimento nel Sacramento della Confermazione.

Tante volte abbiamo ascoltato la promessa di Gesù: «Tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, egli ve lo concederà» (Gv 16. 23), ma forse di rado abbiamo riflettuto sul fatto che la "cosa" che Egli vuole che noi chiediamo, prima di qualunque altra cosa, è che lo Spirito Santo venga ad abitare nei nostri cuori, il che concretamente significa vivere in grazia e orientare la nostra volontà a quella divina, per essere davvero felici sin da questa vita. Ricevere lo Spirito Santo significa lasciar fruttificare le virtù teologali (fede, speranza, carità), ricevute come in germe da Dio nel Battesimo, e significa anche lasciar fruttificare i suoi sette santi doni, cioè quelle sette virtù soprannaturali - sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, timor di Dio, scienza e pietà - che il Signore ci concede in sostegno delle sette virtù. 

Il ministero terreno di Gesù Cristo ha visto il proprio apice nel celebre discorso della montagna (cfr. Mt cc. 5-7), il quale parte proprio dalla massima preoccupazione spirituale di Gesù per noi, ossia la nostra santificazione, espressa dalle otto beatitutidini, le quali - com'è unanime il giudizio dei Padri e dei Dottori - rappresentano gli effetti dei sette doni dello Spirito Santo. Anche la preghiera del Pater noster insegnataci da Gesù stesso (cfr. Mt 6, 9-13) è anzitutto un elenco di sette richieste al Padre, con le quali richiediamo appunto i sette doni dello Spirito Santo. Sotto quest'ottica, è più facile dunque comprendere l'intenzione ultima di Nostro Signore.

«Finora non avete chiesto nulla nel mio nome. Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia completa» (Gv 16, 23-30). Non abbiamo chiesto nulla, cioè nulla che valga davvero la pena di essere chiesta: lo Spirito Santo e i suoi sette doni. Tutto il resto, anche i bisogni materiali, vengono di conseguenza, perché Dio è Provvidenza. Ma l'inabitazione dello Spirito Santo è necessaria per la santità, "gioia completa". La santificazione è un processo e, come tale, richiede tempo. Il Signore aveva parlato fino a quel momento ai suoi apostoli in parabole, il cui fine - al contrario di quanto si sente spesso dire - non era certo quello di far comprendere a tutti e in modo semplice nozioni più o meno difficili, ma al contrario, era quello di rendere in un certo senso ermetica la dottrina, non facilmente accessibile, proprio perché c'è bisogno di un cammino per arrivare a conoscere come Dio conosce: «Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere» (Is 6, 9-10). C'è bisogno dell'inabitazione dello Spirito Santo per comprendere pienamente: «In quel giorno» allora, cioè nel "giorno della santità", non ci sarà più bisogno di chiedere, perché quel giorno - come commentano i santi Giovanni Crisostomo e Tommaso d'Aquino - è il giorno di Pentecoste. 

Quando si vive nella grazia, non si ha più bisogno di mediatori umani, ma è Dio stesso ad ascoltarci. Per queste ragioni, Cristo dice: «In quel giorno chiederete nel mio nome e non vi dico che io pregherò il Padre per voi», cioé Gesù Cristo non pregherà il Padre in quanto vero uomo e mediatore per gli uomini, ma gli apostoli - Chiesa nascente - ameranno Dio come Padre, non solo come Signore, e questa familiarità otterrà tutto in sovrabbondanza. San Tommaso d'Aquino, commentando questo brano di san Giovanni evangelista, commenta il concetto di familiarità. Si ha familiarità verso qualcuno quando spontaneamente si è propensi a chiedergli qualcosa. La familiarità è reciproca: il Padre si fida degli apostoli (Gv 16, 27: «il Padre infatti vi ama perché avete creduto in me»), così come il Padre si fida del Figlio (Gv 16, 28a: «Uscii dal Padre e venni nel mondo») e il Figlio si fida del Padre (Gv 16, 28b: «ora lascio il mondo e torno al Padre»).

La somma manifestazione di affetto degli apostoli verso Cristo è la confessione di fede. E tale confessione procede da tre aspetti. Il primo aspetto è la chiarezza della dottrina: «Ecco che ora parli apertamente e senza parabole» (Gv 16, 29). Infatti, una dottrina è accolta anzitutto se è comprensibile dall'intelletto naturale dell'uomo e la fede cattolica è assolutamente ragionevole. Il secondo aspetto è la certezza della dottrina ricevuta: «Adesso conosciamo che tu sai tutto e non hai bisogno che alcuno ti interroghi» (Gv 16, 30a). Se si ritiene una tale dottrina di origine divina, non possiamo dubitare della verità di essa, perché Dio sa tutto e non può mentire. In questo versetto, notiamo una apparente contraddizione: infatti, chi sa è colui che non ha bisogno di interrogare, non colui che non ha bisogno di essere interrogato. Eppure qui gli apostoli dicono: "non hai bisogno che alcuno ti interroghi". Si tratta in realtà di una confessione della natura assolutamente beata del Figlio, in quanto Dio: la necessità della preghiera è infatti dalla parte nostra, non dalla parte di Cristo. Infine, il terzo e ultimo aspetto è quello della consapevolezza dell'origine divina della dottrina, cioè della necessità che Dio riveli quella parte di verità che l'intelletto da solo non può raggiungere: «crediamo che tu sei uscito da Dio» (Gv 16, 30b).

Gaetano Masciullo

sabato 1 maggio 2021

Quarta Domenica dopo la Pasqua: Il Signore promette l'Ascensione e la Pentecoste




Il vangelo proclamato dalla Chiesa nella IV Domenica dopo Pasqua, secondo il calendario seguìto nella celebrazione in forma straordinaria del rito romano, è in diretta continuazione con quanto proclamato domenica scorsa, ossia la promessa dell’Ascensione. Riviviamo con gli apostoli i quaranta giorni che separano la Resurrezione del Signore dalla sua salita al Padre. I vangeli non ci parlano, se non sommariamente, di ciò che avvenne in quei giorni, ma la cosa non deve sorprenderci. Sappiamo dalla Tradizione cattolica (che è depositum fidei tanto quanto la Scrittura) che è in questo tempo che il Signore ha indicato agli apostoli, futuri primi vescovi della Chiesa universale, le “linee guida” – per così dire – della celebrazione liturgica.

È questa la prima dimensione sulla quale dobbiamo meditare in questo periodo pasquale che ci separa dall’Ascensione: non a caso, anche nell’Ufficio Divino, la Chiesa separa il tempo di Pasqua considerando questo spartiacque. Uno spunto utile di meditazione può essere il seguente. La Bibbia – sia Antico sia Nuovo Testamento – non fu scritta innanzitutto come resoconto storico o come testo di preghiera personale: tutte concezioni che sono andate diffondendosi nell’età moderna, dopo Lutero. La Bibbia nasce come testo liturgico, da proclamare nelle assemblee. E questo risulta evidente, se pensiamo che, anche all’epoca di Cristo, la maggioranza del popolo era analfabeta e non avrebbe potuto giovare della lettura della Scrittura, se non ascoltandola dai presbiteri. Tra i Dodici, probabilmente solo san Giovanni sapeva leggere e scrivere in maniera fluente, in quanto giovane e promettente membro della casta sacerdotale ebraica. Questo spiega anche perché i primi cristiani avvertirono solo tardivamente l’esigenza di mettere per iscritto i vangeli, la cui stesura fu concepita comunque per un fine declamatorio. Le lettere paoline, ad esempio, cronologicamente sono più antiche dei vangeli ed erano lette nelle assemblee, prima dello “spezzare del pane”, cioè prima della celebrazione eucaristica.

Un secondo spunto di meditazione riguarda più da vicino il testo del Vangelo proclamato oggi. Quando il Signore promette l’Ascensione agli Apostoli, questa promessa viene percepita da loro come motivo di tristezza, anziché di gioia, tanto che Gesù appare stupito: «Vado a Colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: “Dove vai?”. Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro cuore!» (Gv 16, 5b-6). In questo modo, Gesù ci dice due cose. La prima è che dobbiamo sempre meditare, interrogarci su tutto ciò che Egli ci riferisce nella Scrittura. La seconda è che la lontananza corporea di Cristo non deve essere per noi motivo di sofferenza, ma di gioia. Scrive san Tommaso d’Aquino: «Quantunque la presenza corporale di Cristo fosse stata sottratta ai fedeli mediante l’Ascensione, tuttavia è sempre accanto ai fedeli la presenza della sua divinità, secondo ciò che egli stesso dice in Matteo [28, 20]: “Ecco: io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei secoli”» (Cfr. S.Th. III, q. 57, a. 1, ad 3).

Gesù dunque spiega il significato dell’Ascensione, nonostante il turbamento degli Apostoli. «È necessario per voi – dice il Signore – che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito, ma, quando me ne sarò andato, io ve lo manderò». Necessario per voi, cioè conveniente, dove la convenienza è una necessità di tipo pedagogico: l’uomo infatti ha bisogno di segni, percepibili dai sensi, per comprendere le verità divine, non percepibili dai sensi. In altre parole: la vista e la conoscenza dell’Ascensione serve a preparare le anime dei cristiani alla Pentecoste. Gli apostoli non capirono immediatamente questa necessità e anche noi la capiremo solo quando festeggeremo la Pentecoste.

Alla promessa dell’Ascensione si associa quindi la promessa della Pentecoste. Lo Spirito Santo discenderà per convincere il mondo «riguardo al peccato, riguardo alla giustizia e riguardo al giudizio» (Gv 16,8). L’affetto umano degli apostoli per Gesù è insufficiente, se non si trasforma in carità, virtù che solo lo Spirito Santo può donare. E la carità si estrinseca anzitutto nel convincere il mondo riguardo al peccato, «per il fatto che non credono in me» (Gv 16, 9). Come spiega san Tommaso d’Aquino: «Egli riprende solo il peccato di infedeltà, perché tutti gli altri peccati sono rimossi attraverso la fede» (In Ioannem, l. 3). È necessario dunque instillare negli uomini e nelle donne la fede cattolica per avviare in essi il processo di santificazione. O in altre parole, non si può essere santi se non da cristiani. In secondo luogo, questa carità divina si estrinseca nel convincere il mondo riguardo alla giustizia, «per il fatto che io vado al Padre e non mi vedrete più» (Gv 16, 10). Infatti, è giusto che Colui che è incorruttibile in divinità, anima e corpo non sia in questo mondo, che è luogo della corruttibilità, ma in Cielo, luogo dell’incorruttibilità. In terzo e ultimo luogo, questa carità divina si estrinseca nel convincere il mondo riguardo al giudizio, «per il fatto che il principe di questo mondo è già condannato» (Gv 16, 11). Il principe di questo mondo, cioè Satana, è già stato sconfitto dall’eternità. San Tommaso d’Aquino scrive che il Signore dice ciò «affinché rimuova le scuse degli uomini, i quali si scusano dei peccati attraverso la tentazione del diavolo; quasi a dire: questi uomini non possono essere scusati, perché il diavolo è stato espulso dai cuori dei fedeli per la grazia, per la fede in Cristo e per lo Spirito Santo, cosicché il diavolo non possa tentare interiormente come [faceva] prima [del Battesimo], ma solo esteriormente con un’attività permessa [da Dio]; e in questo modo possono resistere coloro che vogliono aderire a Cristo» (Cfr. In Ioannem l. 3).

Gaetano Masciullo 

 

L'Ascensione, festa della Speranza

Sequéntia S. Evangélii secundum Marcum 16, 14-20. In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit in...