sabato 30 luglio 2022

La ricchezza materiale è sempre un male?

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Vangelo proclamato nella VIII Domenica dopo Pentecoste (forma straordinaria del rito romano)

Quando si pensa al rapporto tra ricchezza materiale e cristianesimo, si pensa di solito a un rapporto conflittuale. Si ritiene spesso - erroneamente - che Cristo sia venuto in terra a predicare una assoluta povertà economica e molti sono i sedicenti cristiani che hanno proposto e propongono questo modello di vita come unico modello di una vita coerentemente cristiana. Ma questa visione è falsa, perché incredibilmente contraddittoria e, quindi, impossibile.

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San Lorenzo diacono e martire, patrono dei diaconi.

Il vangelo proclamato nella VIII Domenica dopo Pentecoste è molto illuminante per capire quale sia la giusta ottica che il cristiano cattolico deve avere nei confronti della ricchezza materiale. Certamente ci sono diversi passaggi nel Vangelo e, più in generale, nella Scrittura che mettono in guardia l'essere umano dall'attaccare il proprio cuore alle ricchezze mondane, ma da questo non segue che le ricchezze sono intrinsecamente negative. Come tutti gli strumenti, anche la ricchezza è moralmente neutra e il suo valore morale dipende dall'uso che se ne fa.

Nel corso della storia della Chiesa, tantissimi santi hanno esaltato la povertà materiale in senso corretto e, dunque, autenticamente cristiano. San Lorenzo diacono, martire dei primi secoli, disse che il vero tesoro della Chiesa sono i poveri.

Ma questo non vuol dire che la povertà sia una cosa positiva o addirittura una grazia.

Al contrario, la povertà è un male sociale terribile e va combattuta. La povertà è una disgrazia. La Chiesa ama i poveri perché vuole essere in grado di vincere la loro condizione, anzitutto spiritualmente e mentalmente, cioé educandoli anche ad avere un sano rapporto con il denaro e con il risparmio.

Biografia di Papa Leone XIII
Leone XIII, il papa della Rerum Novarum.

In effetti, la dottrina sociale della Chiesa riconosce e promuove l'importanza di una economia del risparmio, da contrapporre all'economia del consumo (quest'ultima, oggi prevalente, rappresenta una causa significativa della povertà). Il documento magisteriale più importante da conoscere e meditare in tal senso è certamente la Rerum Novarum di papa Leone XIII, scritta nell'ormai distante 1891, ma ancora incredibilmente attuale.

Ma veniamo al brano evangelico odierno. Sicuramente la frase più enigmatica e importante di questa parabola (le parabole non sono mai di semplice comprensione!) è quella che leggiamo nella conclusione:

«I figli di questo secolo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quando morrete, questi vi accolgano nelle dimore eterne» (Luca 16, 8-9).

Cosa vuol dire? La parabola ci narra di un uomo ricco - che rappresenta Dio - e di un fattore che aveva dissipato i beni del padrone. Quest'ultimo rappresenta dunque ogni battezzato che usa male i beni ricevuti dal Signore: in altre parole, il fattore rappresenta l'uomo peccatore, ma in particolare colui che pecca usando male i beni materiali.

L'elemosina è controllata dalla criminalità?
L'elemosina

Essendo venuto a conoscenza della malefatta, il padrone convoca il fattore e chiede conto delle sue azioni, «perché ormai non potrai più essere mio fattore» (Luca 16, 2): il peccato mortale infatti ci sottrae la grazia e con essa la vita eterna e la protezione di Dio.

Il fattore pentito si chiede dunque cosa fare per tornare a vivere conservando un minimo della dignità di figlio di Dio.

Egli dunque raduna tutti i debitori del padrone e abbuona una parte significativa dei loro debiti. Egli viene cioé incontro alle cattive gestioni altrui, riscattando se stesso e gli altri. E' questo il fine dell'elemosina, che la morale tradizionale della Chiesa indica come la penitenza più idonea per le colpe contro i beni materiali.

Differenza fra proprietà, possesso e detenzione
La dèa Dike, ossia la Giustizia presso gli antichi Greci.

Ecco dunque il significato della conclusione pronunciata dal Cristo. La ricchezza è chiamata in latino mammona iniquitatis, spesso tradotto erroneamente in italiano come "ricchezza disonesta", ma alla lettera dovrebbe suonare in realtà come "ricchezza dell'ineguaglianza" (iniquitas significa assenza di equità). Il denaro infatti, così come gli altri beni materiali, è per sua natura distribuito in misura ineguale, ma questo non è un male intrinseco: è nella natura dell'economia. Ogni economista infatti sa bene che la prima preoccupazione dell'economia è la gestione delle risorse in quanto scarse.

Qui Cristo ci dice che possiamo usare questa scarsità per un bene a tutto tondo, sia per l'anima che per i corpi dei fratelli che vivono in miseria. Ancora più interessante è l'espressione greca: mamonà adikìas, dove adikia significa "senza giustizia" e dike è, propriamente parlando, la giustizia distributiva, cioé quella parte della giustizia che dà a tutti secondo la stessa misura.

Ma il denaro si sottrae per sua natura a questo tipo di giustizia: gli antichi lo sapevano bene... C'è infatti un altro tipo di giustizia, quella retributiva, che vede il merito e la colpa. Ed è grazie a questa giustizia che c'è il vero progresso sociale.

Gaetano Masciullo

sabato 23 luglio 2022

Come distinguere la vera dalla falsa religione?

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Vangelo proclamato nella VII Domenica dopo Pentecoste (forma straordinaria del rito romano)

Matteo ci offre quest'oggi un metodo infallibile di discernimento. Il discernimento è infatti una fase fondamentale della spiritualità di ognuno. Bisogna distinguere il sentimento religioso dalla fede. Quest'ultima è l'adesione dell'intelletto umano alle verità rivelateci da Dio. Il sentimento religioso, invece, è quella "pulsione" umana che spinge ad attribuire un senso all'esistenza, a ricercare qualcosa che mantenga unita la realtà, la fonte ultima del significato. Come suggerisce la parola stessa, tuttavia, il sentimento religioso è un sentimento, cioé proviene dalla "parte bassa" dell'anima (direbbero i teologi scolastici: dall'anima sensitiva), anche se illuminata dalla ragione.

Il sentimento religioso è quindi un fenomeno perfettamente naturale e non va confuso con la virtù di Religione in senso stretto.

Esso può essere fallace e soprattutto instabile, come tutti i sentimenti e le emozioni umane, incluso l'amore, emozione che viene tanto lodata ed esaltata di questi tempi, ma che il realismo cristiano ci indica come moralmente neutro, il cui bene cioé dipende dall'oggetto dell'amore, non dalla passione in se stessa: esiste anche un amore cattivo, che porta a danneggiare noi stessi e gli altri, sebbene - in qualità di amore - possa spingerci a vedere tutto in maniera positiva.

Ecco perché alcune piante da frutto non producono ...

Ed ecco dunque l'ammonimento odierno di Cristo. Spesso anche il dio che crediamo di amare in realtà è un idolo, cioé un dio creato "a nostra immagine e somiglianza", secondo le esigenze sociali del momento oppure addirittura le esigenze personali. In definitiva, un dio che non esiste. Ed ecco che Dio finisce per pensarla come noi: Dio si uniforma alla nostra volontà, anziché il contrario. I falsi profeti di cui parla Gesù sono tutti coloro che forniscono modalità convincenti di credere e amare Dio, sia dal punto di vista razionale che dal punto di vista emotivo. Come fare dunque per riconoscerli?

Il metodo è (almeno apparentemente) semplice: «Li riconoscerete dai loro frutti» (Mt 7, 16a).

Questo implica già due cose. La prima è che il sano discernimento implica pazienza. Noi oggi abbiamo una relazione strana e conflittuale con il tempo. Spesso vogliamo tutto e subito e dimentichiamo che Dio è anche il Signore del tempo, perché il tempo è una creatura di Dio. Il tempo oggi è causa di parecchie ansie e frustrazioni, spesso "a ragione", perché costretti in una società frenetica, che ci spinge a procrastinare ciò che andrebbe anticipato e anticipare ciò che andrebbe procrastinato. Ma nella religione non funziona così.

Immagine gratuita di cibo, clessidra, colpo del primo piano

La seconda è che Dio non è relativista: qui Gesù ci sta dicendo che non va bene pensarla come si vuole. La relazione con una persona non comporta una chiusura verso se stessi, ma un'apertura verso l'altro. Quando amiamo davvero qualcuno, ci preoccupiamo di ascoltare e comprendere le sue necessità e anche di comprendere le sue idee e i suoi valori. Perché non dovrebbe funzionare così anche con Dio? Soprattutto se lo riteniamo Dio e, dunque, sappiamo che quello che egli dice è sommo bene e somma verità.

Nel corso della storia della Chiesa, sono comparsi innumerevoli falsi profeti, che hanno propinato visioni nuove ma distorte della religione cristiana. Tutte queste visioni sono apparse convincenti e buone, ma alla lunga si sono dimostrate fallaci, trascinando alla rovina tanto i propugnatori quanto le povere anime che li hanno seguiti. E la rovina è eterna, che ci piaccia o meno: «Ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco» (Mt 7, 19).

Dobbiamo dunque avere grande cura nell'assicurarci di pensarla davvero come Dio, affinché i nostri frutti - che nel linguaggio biblico significano le opere - siano davvero buone. Nel mondo naturale, un frutto è buono se è fertile, se contiene in sè il seme per dare inizio a una nuova vita. Il frutto cattivo è invece sterile.

Da questo dunque si capisce se un insegnamento proviene da Dio oppure no: se spinge a operare bene, in maniera tale che coloro che vedono le nostre opere siano trasformati interiormente, tanto da desiderare una vita nuova, una vita vera.

Gaetano Masciullo

sabato 16 luglio 2022

Condivisione o miracolo?

 Commento al Vangelo della VI Domenica dopo Pentecoste (vetus ordo Missae)

Dipinto di Raffaellino del Garbo: "Moltiplicazione dei pani e dei pesci".

Raffaellino del Garbo, Moltiplicazione dei pani e dei pesci
Vangelo secondo Marco: 8, 1-9

Il vangelo proclamato oggi dalla Chiesa - Domenica 17 luglio 2021, VI Domenica dopo Pentecoste, nella liturgia del rito romano in forma straordinaria - riguarda il famoso episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Molto spesso oggi i teologi spiegano il celebre episodio della moltiplicazione dei pani e dei pesci dicendo che non si trattò propriamente di un miracolo, ma di una "condivisione". Gesù avrebbe semplicemente esortato i suoi apostoli a condividere con tutti i presenti il pane e i pesci che avevano trovato.

Questo approccio negativo nei confronti della potenza prodigiosa di Dio (come se il senso della condivisione potesse essere eclissato dalla constatazione e dalla meraviglia che il prodigio in se stesso suscita nella mente del credente) viene tuttavia smentito dallo stesso vangelo.

L'evangelista Marco, infatti, scrive che da sette pani e "alcuni pesciolini" i discepoli di Cristo arrivarono a saziare "circa quattromila" persone e che avanzarono persino "sette ceste" di cibo.

Sfido chiunque a saziare quattromila persone con sette pani e a riempire addirittura diversi cestini di sopravanzo!

Andando oltre il miracolo (perché di miracolo certamente si trattò), cerchiamo di capire il significato mistico e spirituale che questo gesto rappresenta.

La moltiplicazione di pani e pesci di cui si parla è la seconda in ordine di tempo di cui ci danno testimonianza i vangeli. Pochi sanno infatti che Gesù compì due volte questo miracolo. Solo i vangeli sinottici di Matteo e Marco ne fanno testimonianza.

Gesù si trovava in quei giorni in una regione pagana, la Fenicia, per ragioni che non sono molto chiare. Molto probabilmente, si era ritirato lì con i suoi dodici discepoli per esperire un momento di santa solitudine, una sorta di "esercizi spirituali" per educare gli apostoli alla preghiera e alla santità.

Moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Giovanni Lanfranco, Moltiplicazione dei pani e dei pesci (particolare),
1624 - 1625, olio su tela.

Ma neanche in Fenicia Gesù potette godere della pace che ricercava fuggendo dalla Palestina ebraica. Molto probabilmente, i pagani del luogo avevano sentito parlare di Cristo come maestro di spiritualità e taumaturgo e dunque, venuti a conoscenza della sua presenza in quelle terre, molti intesero incontrarlo per chiedergli miracoli e guarigioni.

Da Tiro Gesù si spostò gradualmente verso il settentrione, a Sidone, poi girò verso oriente e scese per una via a noi ignota verso la Decapoli, fino ad affacciarsi sulla riva orientale del lago di Tiberiade. Qui una incredibile folla di persone si era radunata per ascoltare gli insegnamenti di Gesù - possiamo bene immaginare che non c'erano soltanto ebrei, ma anche tantissimi pagani: cananei, greci, siriani, romani, arabi, etc.

Il vangelo di Marco fa riferimento a un periodo di tre giorni, durante il quale Gesù molto probabilmente non tenne grandi discorsi di natura morale, come aveva fatto con il celebre discorso della montagna, eppure la folla non andò via, quasi riuscisse a saziarsi della sola presenza di Cristo, semplicemente nella consapevolezza che Egli era lì, insieme a loro.

Carta geografica della Fenicia.

Una piccola mappa della Fenicia.
Da notare Tiro e Sidone e la loro distanza da Gerusalemme.

La regione tuttavia era arida. Non c'erano centri urbani nei paraggi e le scorte di cibo che le persone avevano portato con sè per pedinare Cristo nel deserto erano in procinto di terminare.

Gesù era ben consapevole del problema e ha confidato ai suoi discepoli: "Ho compassione di costoro, perché già da tre giorni sono con me e non hanno da mangiare; e se li rimanderò alle loro case digiuni, cadranno lungo la via, perché alcuni di essi sono venuti da lontano" (Marco 8, 2-3).

A questo punto si può già fare una profonda considerazione spirituale: c'è un Dio silenzioso che provvede sempre, anche se sembra distratto e disinteressato alla nostra vita.

Dio provvede anche per i pagani, per coloro cioé che non lo conoscono davvero, sebbene la missione profetica di Cristo riguardasse anzitutto i figli di Israele. E per loro fa lo stesso miracolo che, qualche tempo prima, aveva destinato a persone di confessione ebraica: la moltiplicazione dei pani e dei pesci.

Gli apostoli hanno solo sette pani e pochi pesci con sè. Cristo li benedice e compie il miracolo. San Remigio di Rouen [+ 772/787] sottolinea il fatto che Gesù non consegna direttamente i pani alla folla affamata, ma mediante gli apostoli. In effetti, le azioni di Gesù non sono mai casuali: è per sottolineare l'azione mediatrice della Chiesa, della quale gli apostoli sono i primi vescovi.

Da notare anche il parallelismo tra i sette pani e le sette cesta che avanzano. Il numero sette assume un significato molto importante nella numerologia ebraica e cristiana. Esso è il numero del lavoro perfetto, del compimento, della perfezione. Le opere divine sono dunque perfette in se stesse.

Pane azzimo.

Il pane azzimo, usato comunemente all'epoca di Gesù Cristo

Tutto ciò che Dio fa è perfetto, come quando in Genesi si dice dopo la creazione del cosmo: "E vide che era cosa buona".

Ma la perfezione dell'opera divina è contenuta già nelle poche risorse che spesso pensiamo di avere: sette pani sono insufficienti per saziare quattromila uomini, eppure sono già segno della grandezza di Dio. La stessa perfezione è contenuta nel numero delle ceste che avanzano, cioé nell'abbondanza che Dio concede a coloro che antepongono la giustizia a tutto il resto, secondo quanto lo stesso Cristo ha insegnato: "Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta" (Matteo 6, 33).

Gaetano Masciullo

sabato 9 luglio 2022

Perché Gesù indica tre gradi dell'ira?

 

San Giuseppe, modello di mansuetudine,
prega per noi Colui che ha detto
"imparate da me che sono mite e umile di cuore"

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum 5, 20-24.
In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Nisi abundáverit iustítia vestra plus quam scribárum et pharisaeórum, non intrábitis in regnum coelórum. Audístis, quia dictum est antíquis: Non occídes:
qui autem occíderit, reus erit iudício. Ego autem dico vobis: quia omnis, qui iráscitur fratri suo, reus
erit iudício. Qui autem díxerit fratri suo, raca: reus erit concílio. Qui autem díxerit, fátue: reus erit gehénnae ignis. Si ergo offers munus tuum ad altáre, et ibi recordátus fúeris, quia frater tuus habet áliquid advérsum te: relínque ibi munus tuum ante altáre, et vade prius reconciliári fratri tuo: et tunc véniens ófferes munus tuum.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 5, 20-24.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli. Avete sentito che è stato detto agli antichi: Non uccidere; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che chiunque si adira col fratello sarà condannato in giudizio. Chi avrà detto a suo fratello: raca, sarà condannato dal Sinedrio. E chi gli avrà detto: stolto; sarà condannato al fuoco della geenna. Se dunque porti la tua offerta all’altare e allora ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia la tua offerta all’altare e va prima a riconciliarti con tuo fratello, e poi, ritornato, fa la tua offerta.

Un uomo è giusto quando dà al prossimo ciò che gli spetta. In questo brano del vangelo odierno, tuttavia, Gesù ci mette in guardia da un vizio capitale molto ricorrente, il quale, quando viene praticato, acceca la giustizia e non ci rende "più grandi degli scribi e dei farisei", cioè degli ipocriti, di coloro che a parole dicono di essere buoni e insegnano cos'è la bontà, ma nelle opere si lasciano travolgere dalle passioni più infamanti.

Questo vizio di cui il Signore ci parla è l'ira. Anche san Paolo mette bene in guardia dal lasciarsi guidare dall'ira, perché è facile commettere ingiustizie quando si compiono azioni dettate da questo peccato: "Nell'ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date occasione al diavolo" (Efesini 4,26-27). La definizione paolina dell'ira è quindi molto forte: occasione per il diavolo!

San Tommaso d'Aquino, seguendo l'insegnamento dei Padri, commenta il brano odierno del vangelo secondo Matteo distinguendo tre gradi d'iracondia. L'iracondia è sempre un peccato mortale, se offende la carità di Dio o del prossimo, ma questa stessa gravità può assumere gradi, cioè livelli, diversi. Non tutti i peccati mortali, infatti, hanno la stessa gravità e non tutti i peccati gravi saranno puniti nell'inferno secondo la stessa intensità di pena.

Questi tre gradi rispecchiano anche l'ordine di generazione dell'iracondia, che dal pensiero arriva ai fatti. All'epoca di Gesù (ma in realtà ancora oggi), si credeva che solo quando ci si arrabbia tanto da danneggiare il prossimo si pecca contro Dio. Il Signore ci invita a rivedere con una mentalità nuova, divina e profonda, il rapporto con il peccato.

"In verità vi dico: chi si adira contro il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio". Coltivare l'ira, cioè il desiderio di vendetta, contro qualcuno è già per se stesso un peccato grave, anche se non viene portato a compimento.

"Chi dirà al proprio fratello: raca, sarà sottoposto al sinedrio". Il secondo grado dell'ira è già un passo successivo. La parola raca - che spesso in italiano viene tradotto con "scemo" o "imbecille" - andrebbe in realtà espresso più come una parolaccia, una volgarità per "mandare a quel paese" il prossimo. Il secondo grado dell'ira è quello dunque che si manifesta con esternazioni verbali o gestuali.

"Chi dirà al fratello: stolto, sarà sottoposto alla geenna". Il terzo e ultimo grado dell'ira è infine quando si passa dalle esternazioni ai fatti. Ora i fatti possono coprire un gran ventaglio di possibilità, che va dall'offesa verbale all'offesa fisica, fino ad arrivare all'estremo caso dell'omicidio. Gesù condanna la possibilità minima - ossia l'offesa verbale - per condannare tutte le altre possibilità di azione iraconda, ben peggiori.

Gaetano Masciullo

sabato 2 luglio 2022

Perché la barca è simbolo della Chiesa?

 

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 5,1-11
In illo témpore: Cum turbæ irrúerent in Iesum, ut audírent verbum Dei, et ipse stabat secus stagnum Genésareth. Et vidit duas naves stantes secus stagnum: piscatóres autem descénderant et lavábant rétia. Ascéndens autem in unam navim, quæ erat Simónis, rogávit eum a terra redúcere pusíllum. Et sedens docébat de navícula turbas. Ut cessávit autem loqui, dixit ad Simónem: Duc in altum, et laxáte rétia vestra in captúram. Et respóndens Simon, dixit illi: Præcéptor, per totam noctem laborántes, nihil cépimus: in verbo autem tuo laxábo rete. Et cum hoc fecíssent, conclusérunt píscium multitúdinem copiósam: rumpebátur autem rete eórum. Et annuérunt sóciis, qui erant in ália navi, ut venírent et adiuvárent eos. Et venérunt, et implevérunt ambas navículas, ita ut pæne mergeréntur. Quod cum vidéret Simon Petrus, prócidit ad génua Iesu, dicens: Exi a me, quia homo peccátor sum, Dómine. Stupor enim circumdéderat eum et omnes, qui cum illo erant, in captúra píscium, quam céperant: simíliter autem Iacóbum et Ioánnem, fílios Zebedǽi, qui erant sócii Simónis. Et ait ad Simónem Iesus: Noli timére: ex hoc iam hómines eris cápiens. Et subdúctis ad terram návibus, relictis ómnibus, secuti sunt eum.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 5,1-11
In quel tempo, affollàtesi le turbe attorno a Gesù per udire la parola di Dio, Egli si teneva sulla riva del lago di Genezareth. E vide due barche tirate a riva, poiché i pescatori erano discesi e lavavano le reti. Salendo in una barca, che era di Simone, lo pregò di allontanarlo un poco dalla spiaggia; e sedendo insegnava alle folle dalla piccola imbarcazione. Quando finì di parlare, disse a Simone: "Va al largo e getta le reti per la pesca". E, rispondendogli, Simone disse: "Maestro, per tutta la notte abbiamo lavorato senza prendere niente. Tuttavia, sulla tua parola, getterò la rete". E fattolo, presero una così grande quantità di pesci che le reti si rompevano. E allora fecero segno ai compagni che erano nell’altra barca, affinché venissero ad aiutarli. Ed essi vennero e riempirono le due barche al punto che stavano per affondare. Visto questo, Simon Pietro si gettò ai piedi di Gesù, dicendo: "Allontanati da me, o Signore, poiché sono un peccatore". Lo spavento infatti si era impadronito di lui e di quelli che erano con lui a causa della pesca: ed erano sbigottiti anche Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano compagni di Simone. E Gesù disse a Simone: "Non temere: d’ora in poi sarai pescatore di uomini". E avendo tirato a terra le barche, lasciata ogni cosa, lo seguirono.

Tra i simboli che significano la Chiesa, la nave è sicuramente quello più famoso. E' lo stesso Gesù che paragona la Chiesa a una nave e lo fa non con una parabola - come fa spesso - ma con un fatto. Lo fa con una sequenza di gesti ben precisi.

Simon Pietro doveva essere un imprenditore ben avviato nell'attività di pesca, tanto che possedeva ben due naviculae, cioè due imbarcazioni. Egli aveva anche dei sottoposti, tra i quali troviamo due futuri apostoli di Gesù, i figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni. La chiamata alla sequela fatta da Gesù stravolgerà la vita di questi pescatori.

Quando Gesù incrocia le barche, i futuri discepoli del Maestro divino stavano "lavando le reti". San Giovanni Crisostomo vede nel gesto di lavare le reti un'immagine della vocazione alla nuova vita. Confrontando il racconto di Luca con quello di Matteo (cfr. Mt 4,21), infatti, questo Padre della Chiesa interpreta il verbo "lavare" come sinonimo di "riparare". In effetti, spesso i pescatori praticavano entrambe le cose alla fine di una lunga nottata di pesca. Il doppio gesto di lavare e riparare le reti indicherebbe dunque, misticamente, la doppia azione di purificare l'anima per ripararla e prepararla alla nuova vita.

Il primo gesto cui assistiamo è quello di salire su una delle due barche e distanziarsi dalla riva, sedersi e insegnare alle folle, che erano accorse per ascoltare gli insegnamenti di Cristo. Gesù non sale su una barca a caso. Egli sceglie di salire sulla barca di Pietro e in essa - non in altre - si siede. Per gli antichi, l'atto di sedersi è un atto di autorità. Il maestro è colui che si siede in cattedra e parla, insegna la verità.

Sant'Agostino di Ippona si sofferma su questo graduale allontanamento della barca dalla riva. La riva rappresenta la terraferma, dunque la stabilità, la Rivelazione. In particolare, rappresenta Israele, il popolo che è stato fedele all'Alleanza con Dio. L'acqua invece - soprattutto l'acqua del mare e dei laghi - rappresenta spesso nella Bibbia il mondo, indicando con questo termine la mentalità ostile al vangelo.

Ma Gesù non rimane a terra perché Dio vuole la salvezza di tutti gli uomini: Israele è solo il punto di partenza di una verità destinata a tutti gli uomini. Allora dapprima si allontana un poco dalla riva e predica ai giudei, perché anch'essi comprendano la pienezza della Verità, ma sì che siano già proiettati verso coloro che non appartengono alla figliolanza di sangue di Giacobbe, e poi dice a Simon Pietro: duc in altum! - "Prendi il largo!"

Ecco che la Chiesa deve entrare nel mondo, navigarlo, ma senza mai affondare. Una barca è solida e galleggia tra le menzogne, rimane sempre al di sopra della superficie. Il legno duro della nave è la dottrina - il depositum fidei, che i pescatori - cioè gli apostoli e i suoi successori i vescovi - hanno sistemato e inchiodato secondo un progetto preciso. La barca ha una vela, perché la Chiesa si lascia guidare dallo Spirito Santo: "Il vento soffia dove vuole e tu ne odi il rumore, ma non sai né da dove viene né dove va; così è di chiunque è nato dallo Spirito Santo" (Gv 3,8).

Ma cosa succede alla Chiesa se essa non segue gli insegnamenti di Gesù? Se rifiuta di farlo salire a bordo? Ecco che vede la stessa sorte della barca di Simon Pietro: la barca vaga di notte, in cerca di pesci, ma i pescatori faticano e sudano invano e arrivano all'alba senza aver trovato nulla.

Invece, se i pescatori gettano le reti "sulla parola" di Gesù, cioè sulla sua promessa salvifica, ecco che prendono "una così grande quantità di pesci che le reti si rompono". I pesci sono i figli di Dio, riscattati dal mare della menzogna. La quantità di pesce straborda così tanto che Simon Pietro è costretto a chiamare i suoi compagni dell'altra barca.

Sant'Ambrogio di Milano commenta dicendo che l'altra nave rappresenta la Giudea e che essa apparteneva a Giacomo e Giovanni. Nel separarsi anch'essa da riva, raggiunge la nave di Pietro e si unisce a essa, anzi i due apostoli salgono sulla nave di Pietro. "Tutti infatti si genuflettono nel nome di Gesù, sia giudei sia greci".

Gaetano Masciullo

L'Ascensione, festa della Speranza

Sequéntia S. Evangélii secundum Marcum 16, 14-20. In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit in...