lunedì 31 ottobre 2022

Celebrare la festa di Ognissanti imparando a conoscere il Purgatorio

 Indulgenze per le Anime del Purgatorio nel giorno dei ...

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 5,1-12.
In illo témpore: Videns Iesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli eius, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt iustítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter iustítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 5,1-12.
In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, salì sulla montagna. Sedutosi, ed avvicinatisi a Lui i suoi discepoli, così prese ad ammaestrarli: "Beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati i miti, perché prenderanno possesso della terra. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di questi è il regno dei cieli. Beati siete voi, quando vi malediranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli".

In occasione del primo e secondo giorno di Novembre, la Chiesa ricorda e venera rispettivamente le anime sante della Chiesa trionfante e le anime sante della Chiesa purgante. Entrambe le tipologie di anime sono sante, le prime perché già contemplano pienamente l'essenza della divinità, le seconde perché - pur non contemplandola - sono comunque predestinate inesorabilmente a essa.

Nella Chiesa di oggi, non si parla quasi mai purtroppo di questa importante realtà escatologica che è il Purgatorio e spesso lo si relega a una fantasia medievale o all'estro poetico di Dante Alighieri. Ma il Purgatorio è una realtà, soave e al contempo dura, con la quale dobbiamo confrontarci. Spesso tra i credenti serpeggia l'illusione (almeno inconscia) che salvarsi - cioè meritare il Paradiso dopo la morte - sia cosa piuttosto semplice, perché Dio, lo sanno tutti, è Amore e Misericordia. Ma questa credenza è profondamente anti-evangelica. Alla domanda degli apostoli: "Signore, sono pochi i salvati?", Gesù non rispose direttamente, ma avvisò: "Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché io vi dico che molti cercheranno di entrare e non potranno" (Luca 13, 23-24).

Il Paradiso è dunque una porta stretta, perché si entra attraverso la Croce: ma questo non vuol dire che il cristianesimo deve essere una forma istituzionalizzata di masochismo. Indica invece con grande realismo che ci si santifica, cioé si diventa perfetti e dunque felici, beati, tramite l'esercizio delle sette virtù, e non tramite l'esercizio del piacere.

Cosa è dunque il Purgatorio? Come insegna il Catechismo, esso è la condizione in cui si trova l'anima umana che muore in stato di grazia (cioè priva di qualunque colpa, sia la colpa originale - lavata a suo tempo dal Battesimo - sia quella personale), ma che allo stesso tempo non ha espiato completamente le conseguenze dei suoi peccati. Sì, perché Dio è giustizia e ha creato il cosmo con giustizia. L'universo è un equilibrio delicato. Ogni peccato nega e toglie all'ordine costituito una parte di questo equilibrio eterno, che deve essere compensato con qualcosa di identico e contrario: questa è la penitenza.

Per questo motivo Dio si è incarnato ed è morto in croce: solo la natura infinita di Dio poteva compensare la gravità infinita del peccato originale. Senza la Croce, il genere umano sarebbe condannato inesorabilmente. Ma torniamo al Purgatorio. La Confessione, ossia il sacramento fondato da Cristo per assolvere le colpe personali, cancella i peccati, ma non cancella le penitenze. Da qui capiamo anche la gravità di quei tanti sacerdoti che oggi non confessano più i fedeli e, quando lo fanno, spesso non assegnano le penitenze al momento dell'assoluzione e, quelle pochissime volte che si verifica l'assegnazione delle penitenze, spesso queste non sono proporzionate alle colpe confessate.

Come diceva santa Caterina da Genova (1447-1510), la grande mistica e "dottoressa" del Purgatorio, come fu chiamata da papa Clemente XII, "il Purgatorio è un Inferno a tempo". Questo ci deve far riflettere su due aspetti. Il primo è che, a differenza di Inferno e Paradiso, il Purgatorio non è una realtà destinata a essere eterna. Esso è destinato a terminare al momento della Parusia finale di Nostro Signore. Il secondo aspetto è il fatto che le penitenze del Purgatorio non sono esattamente una passeggiata, ma degne di essere paragonate alle pene infernali. In effetti, l'essere umano è un ente corporeo, che fa il male e il bene non con la sola anima, ma anche con il corpo. Questo significa che è chiamato anche a compensare il male che fa in quanto corpo. Eppure, dopo la morte, non avremo più la nostra carne, almeno fino alla resurrezione finale: da ciò deriva anche una maggiore intensità del dolore, tutta concentrata nello spirito, per compensare una colpa che è stata fatta con qualcosa che non c'è più.

Gaetano Masciullo

sabato 29 ottobre 2022

Instaurare la Pace di Cristo nel Regno di Cristo

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Ioánnem 18,33-37.
In illo témpore: Dixit Pilátus ad Iesum: Tu es Rex Iudæórum? Respóndit Iesus: A temetípso hoc dicis, an álii dixérunt tibi de me? Respóndit Pilátus: Numquid ego Iudǽus sum? Gens tua et pontífices tradidérunt te mihi: quid fecísti? Respóndit Iesus: Regnum meum non est de hoc mundo. Si ex hoc mundo esset regnum meum, minístri mei útique decertárent, ut non tráderer Iudǽis: nunc autem regnum meum non est hinc. Dixit ítaque ei Pilátus: Ergo Rex es tu? Respóndit Iesus: Tu dicis, quia Rex sum ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimónium perhíbeam veritáti: omnis, qui est ex veritáte, audit vocem meam.

Seguito del S. Vangelo secondo Giovanni 18, 33-37.
In quel tempo, Pilato disse a Gesù: "Sei tu il Re dei Giudei?". Gesù gli rispose: "Lo dici da te, o altri te l’hanno detto di me?". Rispose Pilato: "Sono forse io Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno messo nelle mie mani. Che cosa hai fatto?". Rispose Gesù: "Il mio regno non è di questo mondo; se fosse di questo mondo, i miei ministri certo si adopererebbero perché non fossi dato in potere ai Giudei: dunque il mio regno non è di quaggiù". Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei Re?". Rispose Gesù: "È come dici, io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo, a rendere testimonianza alla verità. Chiunque sta per la verità, ascolta la mia voce".

Il papa Pio XI, l'11 dicembre 1925, pubblicò una lettera enciclica di profondo valore magisteriale, intitolata Quas Primas, avente per argomento la regalità di Gesù Cristo.

Tre anni prima, nella sua prima enciclica, Ubi arcano Dei consilio, dove il pontefice aveva delineato il programma del suo regno, aveva espresso il desiderio di fare tutto per instaurare la pace di Cristo nel Regno di Cristo.

A fronte dell'eresia modernista, che allora stava già imperversando tra i teologi cattolici di tutto il mondo, e che voleva ridurre la fede a un fatto squisitamente privato e non più sociale, il papa ribadì l'esigenza di quest'ultima dimensione. A distanza di ben 96 anni dalla promulgazione di quel documento, a trionfo avvenuto del modernismo nella Chiesa, possiamo constatare la profonda verità dell'analisi fatta da Pio XI.

La società, dopo aver subìto la riduzione della fede cattolica a fatto privato, ormai totalmente scristianizzata, è composta di individui che non sanno coltivare il Cristianesimo neanche a livello personale. Il catechismo è stato gettato alle ortiche e la fede non è più l'adesione dell'intelletto alle verità rivelate, ma è stata ridotta a sentimentalismo e filantropia.

Sia chiaro: instaurare il Regno di Cristo, cioé riaffermare la dimensione sociale del cattolicesimo, non significa fare della fede cattolica una questione politica. O in altre parole: non significa imporre il Credo con la legge dello Stato e con la spada (o il mitra, per essere più attuali). E' un regno spirituale che compete alla sola Chiesa, la quale, insieme alla famiglia, è l'unica società necessaria per l'uomo.

La regalità di Cristo è ribadita anche nel Credo, l'elenco dei quattordici dogmi fondamentali della Fede cattolica, che recitiamo ogni domenica durante la Messa: Credo in un solo Signore, Gesù Cristo... e il suo regno non avrà fine. C'è dunque una dignità regale di Cristo.

La società non è più cristiana, dicevamo, ma non per questo dobbiamo considerarla una società atea e materialista. Al contrario, la società contemporanea è profondamente spirituale e religiosa. L'ateismo e l'agnosticismo, in fondo, rimangono posizioni filosofiche, tesi teoretiche appannaggio di pochi filosofi. Lo dimostrano la moltiplicazione di sette new age, forme nuove di credenze e di superstizioni, fino ad arrivare alla fiducia cieca che le masse riversano nei confronti dello Stato impersonale, "dio mortale", come lo chiamava Thomas Hobbes. Quando manca la Verità, la sete naturale di Dio che c'è nell'uomo si rivolge verso gli idoli.

Gaetano Masciullo

sabato 22 ottobre 2022

Fede perfetta e fede imperfetta: il miracolo del funzionario di Cafarnao


Forma straordinaria del rito romano:
XX Domenica dopo Pentecoste

Sequéntia S. Evangélii secundum Ioánnem, 4, 46-53.
In illo témpore: Erat quídam régulus, cuius fílius infirmabátur Caphárnaum. Hic cum audísset, quia Iesus adveníret a Iudaéa in Galilaéam, ábiit ad eum, et rogábat eum ut descénderet, et sanáret fílium eius: incipiébat enim mori. Dixit ergo Iesus ad eum: Nisi signa et prodígia vidéritis, non créditis. Dicit ad eum régulus: Dómine, descénde priúsquam moriátur fílius meus. Dicit ei Iesus: Vade, fílius tuus vivit. Crédidit homo sermóni, quem dixit ei Iesus, et ibat. Iam áutem eo descendénte, servi occurrérunt ei, et nuntiavérunt dicéntes, quia fílius eius víveret. Interrogábat ergo horam ab eis, in qua mélius habúerit. Et dixérunt ei: Quia eri hora séptima relíquit eum febris. Cognóvit ergo pater, quia illa hora erat, in qua dixit ei Iesus: Fílius tuus vivit: et crédidit ipse, et domus eius tota.

Seguito dal Vangelo secondo Giovanni 4, 46-53.
In quel tempo: vi era a Cafarnao un certo funzionario, il cui figlio era malato. Avendo udito che Gesù dalla Giudea veniva in Galilea, andò da lui e lo pregò perché andasse a sanare suo figlio, che stava per morire. Gesù gli disse: "Se non vedete miracoli e prodigi non credete". Gli rispose il funzionario: "Vieni, Signore, prima che mio figlio muoia". Gesù gli disse: "Va', tuo figlio vive". Quell’uomo prestò fede alle parole di Gesù e partì. E, mentre era già per strada, gli corsero incontro i servi e gli annunziarono che suo figlio viveva. Allora domandò loro in che ora avesse incominciato a star meglio e quelli risposero: "Ieri, all’ora settima, lo lasciò la febbre". Il padre allora riconobbe che quella era l’ora stessa in cui Gesù gli aveva detto: "Tuo figlio vive". E credette lui e tutta la sua casa.

La Chiesa continua nel suo ciclo domenicale ad annunciare i vari brani dei miracoli. San Tommaso d'Aquino commenta questo brano (cfr. Super Ev. Ioannis l. 6) affermando che esso ci dimostra come il Signore converte i cuori secondo due metodi principali. Il primo è quello di predicare la dottrina, metodo che attrae alla verità i cuori più puri, perché più liberi dalle passioni nemiche, e che favoriscono la comprensione dell'intelletto (questo metodo era stato illustrato nell'episodio descritto da Giovanni immediatamente prima, cioé l'episodio della samaritana).

Il secondo è quello di operare miracoli, perché questi rendono tangibile la verità di chi opera (un po' come accaduto nell'episodio del paralitico). Il protagonista di questo miracolo è un regulus, che in latino significa "piccolo re" e indica quindi - potremmo parafrasare - un'autorità politica locale. Possiamo immaginare che si trattasse di colui che era a capo di Cafarnao.

Il regulus anonimo di questo episodio ha un figlio malato e si reca a Cana di Galilea, dove Gesù era giunto e dove l'episodio si svolge. E' questo il secondo miracolo di Cana: san Tommaso ci legge un collegamento simbolico. I due miracoli di Cana rappresentano il duplice effetto della parola di Dio nella mente: essa infatti prima dà gioia (com'era avvenuto per i commensali delle nozze che si videro trasformata l'acqua in vino pregiato), dopodiché sana.

L'episodio del regulus vede tre persone in relazione: l'uomo malato (il figlio del regulus), l'uomo che intercede (il padre), l'uomo che sana (Cristo). Inoltre, la malattia indicata dall'evangelista è la febbre. San Tommaso nota che la parola della città da cui proviene il regulus - Cafarnao - significa "abbondanza" e vede in ciò allegoricamente una denuncia del fatto che l'abbondanza di beni temporali rischia di rendere inferma l'anima, febbricitante.

La risposta di Cristo alla richiesta di guarigione del funzionario regio ci offre qualche perplessità. Egli infatti gli dice: "Se non vedete miracoli e segni non credete". Ma come ha potuto il funzionario compiere un viaggio da Cafarnao a Cana per cercare, incontrare Gesù e richiedergli il miracolo, senza avere fede nella sua persona? In effetti, l'episodio termina con la frase "E credette lui e tutta la sua casa", facendoci intendere quindi che, prima del miracolo, essi non avevano fede.

La fede è l'adesione dell'intelletto alle verità rivelate da Dio, credute certe come se fossero evidenti. Essa è un atto libero da parte dell'uomo (come insegna la Costituzione dogmatica Dei Filius del Concilio Vaticano Primo), ma certamente coadiuvata dalla grazia, senza la quale non è possibile avere tale virtù teologale. Ma la fede può essere perfetta e imperfetta. Quella del funzionario rientra evidentemente in questo secondo genere di fede. Pur credendo che Dio può guarire e che doveva venire il Messia, il funzionario non era certo che tale Messia fosse davvero quel Gesù da Nazaret e che in lui vi fosse quella forza divina di guarigione. Per questo, a differenza del centurione di Cafarnao che aveva una fede perfetta, questo funzionario gli dice: "Vieni, prima che mio figlio muoia" - quasi a voler verificare con i propri occhi che il miracolo si realizzi.

Ma affinché la fede del funzionario sia perfetta, Cristo pronuncia una semplice frase: "Va', tuo figlio vive". Il funzionario prestò fede a quelle parole, cioé fu obbediente, e difatti il miracolo si manifestò. E tutta la sua famiglia credette.

Gaetano Masciullo

sabato 15 ottobre 2022

La chiamata universale e l'elezione della Grazia

 

          Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 22, 1-14.

In illo témpore: Loquebátur Iesus princípibus sacerdótum et pharisǽis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum cœlórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo. Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos eius, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi eius in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus eius, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 22, 1-14.
In quel tempo, Gesù parlava ai prìncipi dei sacerdoti e ai farisei con parabole, dicendo: "Il regno dei cieli è simile a un re, il quale celebrò le nozze del proprio figlio: egli mandò i suoi servitori a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero andare. Mandò di nuovo altri servitori a dire agli invitati: 'Il mio pranzo è già pronto: sono stati uccisi i miei tori e gli animali grassi, e tutto è pronto: venite alle nozze'. Ma quelli non se ne curarono, e se ne andarono chi alla propria città, chi al proprio commercio. Altri poi, presi i servi di lui, li trattarono a contumelie e li uccisero. Udito ciò, il re si sdegnò: e inviate le sue milizie sterminò quegli omicidi e dette alle fiamme la loro città. Allora disse ai suoi servi: 'Le nozze sono pronte, ma quelli che erano stati invitati non furono degni. Andate, dunque, agli angoli delle strade e quanti incontrerete chiamateli alle nozze'. E andati i servi di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, buoni e cattivi, sì che la sala del banchetto fu piena di convitati. Entrato il re per vedere i convitati, vide un uomo che non era in abito da nozze. E gli disse: 'Amico, come sei entrato qua, non avendo la veste nuziale?' Ma quegli ammutolì. Allora il re disse ai suoi ministri: 'Legatelo mani e piedi, e gettatelo nelle tenebre esteriori: lì sarà pianto e stridore di denti. Poiché molti sono i chiamati, ma pochi gli eletti'.

La Parola di oggi è una metafora della storia della salvezza. Il re di cui ci parla la parabola è immagine di Dio Padre, che dall'eternità ha preparato le nozze mistiche dell'Agnello, cioè la Redenzione, il riscatto dell'umanità, ferita dal peccato originale, attraverso la Croce di Cristo.

I servitori rappresentano i profeti, che Dio inviò sin dai tempi antichi agli israeliti, mentre gli invitati della festa rappresentano proprio l'antico Israele. Essi, infatti, in virtù della fede di Abramo, della speranza di Isacco e della carità di Giacobbe, in virtù della mansuetudine di Mosè e della potenza di Elia, furono segno vivente sulla terra dell'Alleanza, cioè del "sacro contratto" che Dio dalla sua trascendente maestà aveva sigillato con gli uomini, e in particolare con quell'unica nazione, quell'unica famiglia che era stata capace di custodire la sua rivelazione, cioè gli ebrei.

Ma gli ebrei non hanno voluto conservare la vera fede, e con il tempo si sono lasciati traviare da tradizioni umane e peregrine. Non è un caso che Gesù racconta questa parabola ai prìncipi - cioè ai vertici - dei farisei e agli scribi, cioè ai responsabili di quelle nuove scuole rabbiniche che alteravano l'insegnamento di Mosè.

Quando il re invia di nuovo i propri servitori per annunciare che "tutto è pronto", gli invitati reagiscono all'invito in due modi diversi, ma altrettanto malevoli. Alcuni rimangono nell'indifferenza. E costoro si recano "alla propria città e al proprio commercio", cioè rimangono con il cuore attaccato alle cose del mondo. Altri, invece, fomentati dall'odio e dall'invidia, arrivano a malmenare e uccidere alcuni dei servitori del re. E' in effetti quello che capita a molti profeti: la loro voce viene spesso proclamata invano, altri perdono la vita per amore della verità: si pensi al profeta Isaia, ma anche a san Giovanni Battista.

Le nozze erano pronte, cioè era giunto il tempo della Redenzione, non si poteva aspettare oltre. Sono stati uccisi "i tori e gli animali grassi", dice il Vangelo, che in questo brano sono simbolo dello stesso sacrificio di Gesù.

La parola latina per indicare gli animali grassi è altilia, che indica propriamente il pollame messo all'ingrasso. Secondo san Giovanni Crisostomo, i tori sono simbolo dei sacerdoti, perché guidano il gregge, mentre il pollame è simbolo degli "uomini spirituali", cioè di coloro che fanno della propria vita un sacrificio vivente gradito a Dio. Questo banchetto rappresenta dunque l'intera Chiesa, corpo mistico di Cristo, formato dai sacerdoti e dai battezzati, in virtù del sangue della Croce.

Ma la violenza esercitata dagli invitati nei riguardi dei servi suscita l'ira del re: è vero che Dio chiama alla salvezza, e lo fa due volte nel vangelo odierno, a rappresentare la pazienza e la costanza della chiamata, ma la Misericordia non è contraria alla Giustizia. La città degli invitati viene data alle fiamme, cioè la vocazione alla salvezza non sarà più limitata ai soli israeliti.

Per la terza volta, il re - cioè Dio - manda i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questa volta tutte le persone incontrate vengono invitate a partecipare. Questa terza ondata di servitori rappresenta i missionari della Chiesa, chiamati a evangelizzare e a portare nella Chiesa tutti i popoli, sia ebrei sia pagani, "buoni e cattivi", come dice il vangelo.

La parabola si conclude però con un ammonimento. Entrato nella sala da festa, il re individua un invitato senza l'abito delle nozze. Quest'abito diviene nel racconto di Gesù il simbolo del battesimo, che rende degni di partecipare alle nozze dell'Agnello, cioè rende degni di partecipare della Chiesa.

Ma il peccato mortale, che l'uomo può compiere anche dopo il Battesimo, minaccia di perdere e distruggere questa dignità di figlio di Dio. E' quello che è capitato a quest'uomo: il re fa imprigionare lo sventurato; in questo modo Gesù ci ricorda l'esistenza e la gravità dell'inferno. In questo continuo alternarsi di misericordia e giustizia, così, il Signore ci richiama a prendere con serietà e determinazione il cammino della santità.

Gaetano Masciullo

sabato 8 ottobre 2022

Il perdono di Dio ci dona l'agilità dello spirito

 

Ferrari, Pietro Melchiorre (1761). Guarigione del paralitico [Olio su tela]. Parma, Galleria Nazionale.

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum, 9, 1-8.
In illo témpore: Ascéndens Iesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce offerébant ei paralyticum iacéntem in lecto. Et videns Iesus fidem illórum, díxit paralytico: Confíde, fíli, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Iesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccata tua, an dícere: Surge et ámbula? Ut áutem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralytico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit, et ábiit in domum suam. Vidéntes áutem turbae timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus.

Seguito dal Vangelo secondo Matteo, 9, 1-8.
In quel tempo: Gesú, salito su una barca, ripassò il lago e andò nella sua città. Quando ecco che gli presentarono un paralitico giacente nel letto. Veduta la loro fede, Gesú disse al paralitico: "Figlio, abbi fede: ti sono perdonati i tuoi peccati". Subito alcuni scribi dissero in cuor loro: "Costui bestemmia". E Gesú, avendo visto i loro pensieri, rispose: "Perché pensate male in cuor vostro? Cos’è piú facile dire: 'Ti sono perdonati i tuoi peccati', o dire: 'Alzati e cammina?'. Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sopra la terra di rimettere i peccati: Alzati - disse al paralitico - prendi il tuo letto e vattene a casa tua". E quegli si alzò e se ne andò a casa sua. Vedendo ciò, le turbe si intimorirono e glorificarono Iddio che diede agli uomini tanto potere.

Nel brano di vangelo proclamato nella XVIII Domenica dopo Pentecoste, la Chiesa ci presenta un altro episodio di miracolo corporale eseguito da Gesù. L'episodio è celebre: si tratta della guarigione del paralitico, eseguito a dimostrazione del potere soprannaturale di Cristo di perdonare i peccati.

Come è valso per gli altri episodi di miracoli corporali, anche in questo caso dobbiamo seguire la sapiente indicazione dei Padri e Dottori della Chiesa, che consigliano di vedere in questi prodigi non solo fatti storici, ma anche immagini e insegnamenti spirituali. Il paralitico è un uomo che è impossibilitato a muoversi, pur rimanendo perfettamente cosciente di se stesso e di ciò che lo circonda.

In quanto Dio, Cristo conosce i pensieri inespressi degli uomini. La sincera contrizione del paralitico assicura il perdono divino, ma gli scribi - che non compresero la situazione e che ben sapevano che solo Dio ha il potere di perdonare - accusarono l'uomo Gesù di arrogarsi un diritto proprio della divinità. Il miracolo serve dunque a dimostrare agli uomini che ciò che egli dice è vero e che egli non ha solo una natura umana, ma anche una divina. L'essere umano infatti conosce ciò che è metafisico e universale a partire da ciò che è sensibile e particolare. Cristo conosce la natura umana in quanto ne è il creatore e viene incontro ad essa. Egli non pretende che gli uomini comprendano immediatamente ciò che non è facilmente comprensibile a causa dei limiti dell'intelletto umano.

Il miracolo del paralitico è perciò anche una metafora della Rivelazione divina. Egli rende manifesto all'uomo tramite opere sensibili ciò che per se stesso è inaccessibile alla mente umana.

Ma c'è anche un altro modo interessante con cui si può leggere l'episodio. Sembra quasi che Gesù voglia insegnarci con questo miracolo che il peccato rende paralitico il nostro spirito e che solo il suo perdono riesce a donargli di nuovo "agilità", intendendo con questo termine la capacità di fare il bene e di acquistare meriti agli occhi di Dio.

Infatti, il Catechismo insegna che il peccato mortale ci rende indegni della vita eterna (per questo si chiama mortale) e rende le nostre opere buone prive di merito. Non chiunque fa atti di bontà, infatti, fa atti di carità. La carità segue la fede e la speranza, non viene prima, ed è come la perfezione di quelle due virtù.

Gaetano Masciullo

sabato 1 ottobre 2022

Il compendio della Legge e l'identità di Cristo

 Truth is Like a Lion: Mercy to the Pharisees, Mercy to You

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum 22, 34-46.

In illo témpore: Accessérunt ad Iesum pharisaéi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Iesus: Díliges Dóminum Deum tuum ex toto corde tuo, et in tota ánima tua, et in tota mente tua. Hoc est máximum, et primum mandátum. Secúndum áutem símile est huic: Díliges próximum tuum, sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet, et prophétae. Congregátis áutem pharisaéis, interrogávit eos Iesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cuius fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo: sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius eius est? Et nemo póterat ei respondére verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogáre.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 22, 34-46.

In quel tempo, i farisei si avvicinarono a Gesú e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: "Maestro, qual è il grande comandamento della legge?". Gesú gli disse: "'Amerai il Signore Dio tuo da tutto il tuo cuore, da tutta la tua anima e in tutta la tua mente'. Questo è il più grande e il primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: 'Amerai il prossimo tuo come te stesso'. In questi due comandamenti è racchiusa tutta la legge e i profeti. Ed essendo i farisei radunati insieme, Gesù domandò loro: "Che cosa vi pare del Cristo? Di chi è figlio?". Gli risposero: "Di Davide". Egli disse loro: "Com’è allora che Davide in spirito lo chiama Signore, dicendo: 'Dice il Signore al mio Signore, siedi alla mia destra, sino a che io metta i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi?'. Se dunque Davide lo chiama Signore, com’è egli suo figlio?". E nessuno sapeva rispondergli: né da quel momento in poi vi fu chi ardisse interrogarlo.

Il brano della XVII Domenica dopo Pentecoste secondo la liturgia in forma straordinaria del rito romano può essere suddisivo in due parti. Nella prima parte, i farisei e i dottori della legge - potremmo dire: quella classe politica (ancor prima che religiosa) che aveva usato la Legge del Sinai più in senso sociale che in senso morale - si avvicinano a Gesù per metterlo alla prova.

Il fine dei farisei, frutto dell'invidia, è quello di condannare Cristo. Il mezzo, per se stesso corretto, è quello di testare la sua conoscenza della Parola di Dio. La domanda infatti è a trabocchetto: "Qual è il più grande comandamento?". La risposta ovvia è che non c'è un comandamento più grande di un altro, perché da Dio proviene il bene in massimo grado.

Ma la risposta che Cristo ci fornisce è diversa e illuminante. I dieci comandamenti sono suddivisibili in due categorie: quelli che stabiliscono il nostro rapporto con Dio (i primi tre) e quelli che stabiliscono il nostro rapporto con gli altri (gli ultimi sette). I primi sono compendiati nella frase: "Amerai il Signore Dio tuo da tutto il tuo cuore, da tutta la tua anima e in tutta la tua mente". Interessante notare che le preposizioni sono solitamente tradotte con la parola italiana 'con', ma in realtà in latino suonano ex ("da") per i primi due casi e in ("dentro") nell'ultimo caso.

Da tutto il tuo cuore: come abbiamo già visto qui e qui, la parola 'cuore' nel linguaggio biblico non indica l'amore nel senso di sentimento o di emozione. Indica invece la volontà che segue la conoscenza del bene e che usa le emozioni a proprio vantaggio. Specificare che l'amore viene dal cuore - come un movimento dall'interno verso l'esterno - indica che esso deve concretizzarsi in azioni (preghiera, liturgia, sacramenti, opere).

Da tutta l'anima: qui la parola anima significa "intelletto". E' necessario amare Dio per quello che egli si è rivelato, non secondo le nostre personali congetture. L'anima - cioè l'intelletto - deve conoscere rettamente le verità di fede, rivelateci dallo stesso Dio e insegnateci dalla Chiesa, per essere salva. Fare altrimenti sarebbe come amare qualcuno idealizzandolo secondo i propri gusti. Non sarebbe vero amore, ma solo una proiezione esterna di se stessi e dei propri sogni su una persona ridotta a oggetto delle nostre fantasie.

In tutta la mente: la parola latina mens ha la stessa etimologia della parola italiana 'misura' (in latino: mensura). Oggi questa parola ha un significato molto vago, ma per gli antichi indicava l'insieme delle facoltà che servono a misurare il mondo, cioé a conoscerlo. La mente quindi indica l'insieme dei nostri sensi esterni e dei nostri sensi interni (memoria, fantasia e istinto).

Non possiamo scoprire la verità dentro di noi, ma solo affacciandoci all'esterno, verso il mondo. Dentro di noi però possiamo trovare fantasie e ricordi. Cosa significa amare Dio nella mente, cioè "dentro noi stessi"? Significa che è opportuno il raccoglimento. E' opportuno trovare ogni tanto il momento per contemplare nei nostri ricordi l'amore che Dio ha dimostrato per noi nella nostra vita, negli eventi particolari, per rafforzarlo.

Nella seconda parte, la situazione si inverte. Gesù fa una domanda ai farisei e ai dottori della legge. Sembra quasi che sia il turno per Gesù di testare la conoscenza della Parola dei suoi avversari.

La domanda è esegetica: "Di chi è figlio il Cristo?", cioè il Messia promesso da Dio all'uomo sin dall'inizio dei tempi. La domanda per noi oggi è scontata: "Egli è il figlio di Dio". Ma i farisei forniscono una risposta più terrena: "Egli è figlio di Davide", quasi a dire: "Davide è più grande del Cristo ed è suo modello". Anche Cristo, come Davide, deve regnare dunque sulle coscienze e sulle volontà attraverso il potere temporale?

Gesù fa notare che nel Salmo 109, scritto tradizionalmente da re Davide, si legge: "Dice il Signore al mio Signore...". In questo versetto, Gesù abitua il suo discepolo a intravedere la natura trinitaria di Dio. Il primo Signore citato è infatti Dio Padre, il secondo Signore - che i farisei sapevano essere un riferimento al Messia - è Dio Figlio. Solo Dio infatti può essere chiamato Signore. Di chi è Figlio allora il Cristo?

Gaetano Masciullo

L'Ascensione, festa della Speranza

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