sabato 22 luglio 2023

Fatevi degli amici con le ricchezze disoneste

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 16, 1-9

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis parábolam hanc: Homo quidam erat dives, qui habébat víllicum: et hic diffamátus est apud illum, quasi dissipásset bona ipsíus. Et vocávit illum et ait illi: Quid hoc audio de te? redde ratiónem villicatiónis tuæ: iam enim non póteris villicáre. Ait autem víllicus intra se: Quid fáciam, quia dóminus meus aufert a me villicatiónem? fódere non váleo, mendicáre erubésco. Scio, quid fáciam, ut, cum amótus fúero a villicatióne, recípiant me in domos suas. Convocátis itaque síngulis debitóribus dómini sui, dicébat primo: Quantum debes dómino meo? At ille dixit: Centum cados ólei. Dixítque illi: Accipe cautiónem tuam: et sede cito, scribe quinquagínta. Deínde álii dixit: Tu vero quantum debes? Qui ait: Centum coros trítici. Ait illi: Accipe lítteras tuas, et scribe octogínta. Et laudávit dóminus víllicum iniquitátis, quia prudénter fecísset: quia fílii huius sǽculi prudentióres fíliis lucis in generatióne sua sunt. Et ego vobis dico: fácite vobis amicos de mammóna iniquitátis: ut, cum defecéritis, recípiant vos in ætérna tabernácula.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 16, 1-9

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Vi era un uomo ricco che aveva un fattore, e questi fu accusato presso di lui di avere sperperato i suoi beni. Allora lo chiamò e gli disse: “Che cosa sento dire di te? Rendimi conto della tua attività, perché ormai non potrai più essere mio fattore”. Questi disse fra sé: “Cosa farò ora, che il padrone mi toglie la mia attività? Non ho la forza per zappare, e mi vergogno di chiedere l’elemosina. Ecco, so io quello che farò affinché, quando sarò cacciato dalla fattoria, possa essere accolto in casa altrui”. Chiamati, quindi, tutti i debitori del suo padrone, disse al primo: “Quanto devi al mio padrone?”. E questi: “Cento orci d’olio”. E il fattore: “Prendi il tuo documento di debito, siediti e scrivi: cinquanta”. Poi disse a un altro: “E tu, quanto devi?”. “Cento staia di grano”. E il fattore: “Prendi la tua lettera e segna: ottanta”. Il padrone lodò il fattore disonesto che aveva agito con astuzia, poiché i figli di questo mondo sono più scaltri, fra loro, dei figli della luce. E io dico a voi: fatevi degli amici con le ricchezze disoneste, affinché, quando verrete a mancare, essi vi accolgano nelle loro dimore eterne».

Questa parabola è sicuramente tra le più difficili da capire e senza il sicuro riferimento dell'esegesi tradizionale della Chiesa saremmo davvero inclini a interpretare queste parole secondo i nostri gusti, come in effetti è accaduto, soprattutto in ambito protestante. Nell'VIII Domenica dopo Pentecoste, il tema della liturgia è sicuramente quello della santità del corpo, oltre che dello spirito: una purezza integrale che siamo chiamati a conservare in questa vita per meritare la beatitudine eterna. 

Questo tema è già anticipato nell'Ufficio delle letture tradizionale, dove appunto si legge dal primo libro dei Re l'episodio della costruzione del Tempio per opera di re Salomone e della promessa che Dio rivolge a Israele nella figura del re: «Io ho esaudito la tua preghiera, la tua supplica, che hai fatto davanti a me, ho santificato questa casa da te costruita: vi metterò il mio nome in eterno, e i miei occhi e il mio cuore saranno là tutti i giorni. [...] Ma se voi e i vostri figli vi allontanerete da me, e non mi seguirete con l'osservanza dei miei precetti e delle cerimonie che io vi ho proposto, ma andrete a servire gli dèi stranieri, ad adorarli, io sradicherò Israele dalla terra che gli ho dato, rigetterò dal mio cospetto il tempio che ho consacrato al mio nome, e Israele diverrà proverbio e favola fra tutti i popoli» (1Re 9, 3.6-7).

Il Tempio di Gerusalemme è immagine del corpo, che come scriverà san Paolo è chiamato a essere tempio dello Spirito Santo. Se il nostro corpo non è ripieno di Dio, allora per noi vale il giudizio che il Signore spiegò a re Salomone: "rigetterò dal mio cospetto il tempio che ho consacrato al mio nome".

Questo tema ci aiuta anche a capire la raccomandazione dell'apostolo Paolo, che la Chiesa oggi proclama nella prima lettura: Fratelli - scrive l'Apostolo - noi non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne. Se infatti vivrete secondo la carne, morirete; ma se, mediante lo Spirito, farete morire le opere della carne, vivrete. Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, infatti, sono figli di Dio. Voi non avete ricevuto lo spirito di servitù per ricadere nel timore, infatti, ma lo Spirito d’adozione a figli per il quale gridiamo: «Abbà, Padre!». Lo stesso Spirito rende testimonianza alla nostra anima che siamo figli di Dio. Ma, se siamo figli, siamo pure eredi: eredi di Dio e coeredi di Cristo (Rm 8, 12-17).

In quest'ottica, dunque, dobbiamo cercare di comprendere la parabola che ci viene proclamata quest'oggi. L'uomo ricco cui si fa riferimento all'inizio è ovviamente un'immagine di Dio, mentre il fattore - potremmo forse chiamarlo oggi l'amministratore, oppure come va di moda, il manager - rappresenta ciascuno di noi. Ma questo fattore ha usato male i beni a lui affidati dal proprietario: allo stesso modo noi rischiamo di usare male i beni donatici da Dio, non soltanto i beni esteriori come il denaro, cui la parabola fa direttamente riferimento, ma tutti i beni che hanno a che fare con la corporeità e - perché no - anche i nostri beni intellettuali. Molto male si può fare con le idee cattive, con le idee sbagliate.

Arriva però il momento in cui il padrone licenzia il fattore, e questo licenziamento raffigura per noi la morte, inevitabile condanna, inevitabile pena per il peccato, in particolare per il peccato originale. Quel fattore si rende conto di avere sperperato i beni del Signore e, sebbene il licenziamento sia inevitabile, cerca di rimediare il più possibile all'ultimo momento, sapendo che dopo il licenziamento non sarà più possibile fare nulla per salvarsi agli occhi del padrone. Così vale anche per ogni uomo: bisogna cercare di rimediare alle proprie colpe in questa vita, perché dopo la morte viene il giudizio, e dopo il giudizio vengono i novissimi di inferno o paradiso, sulla base dei nostri demeriti o meriti.

Non ho la forza per zappare, e mi vergogno di chiedere l’elemosina. Queste parole manifestano una condizione tardiva del fattore: cioè il tempo si è fatto troppo tardi ormai per imparare a zappare e la sua condizione è troppo ben definita per iniziare a chiedere l'elemosina. Così, Gesù invita ogni uomo a prendere consapevolezza dei propri peccati anche se può sembrare troppo tardi, anche se siamo in una condizione di vecchiaia, di infermità fisica, oppure di grande prestigio sociale. La soluzione scelta dal fattore per riparare alle proprie malefatte è quella di condonare parte dei debiti che altre persone avevano contratto con il proprio signore. In altre parole, ha permesso ai debitori di ripagare secondo le proprie disponibilità: ecco perché il padrone loda quel fattore "disonesto", come traducono le versioni italiane, forse un po' impropriamente, che cioè non agisce secondo una cieca giustizia, ma secondo prudenza, e permette così che il padrone riceva una certa somma di denaro, piuttosto che non riceverne affatto a causa della situazione alternativa di insolvenza dei debitori.

Ora, cosa significa tutto questo in senso morale? Siamo chiamati a usare con prudenza i beni dello spirito, proprio come usiamo con prudenza i beni temporali. Ecco perché Gesù alla fine dice: i figli di questo mondo sono più scaltri, fra loro, dei figli della luce. L'uso prudente dei beni mondani ci viene spontaneo, tanto che a volte li usiamo a svantaggio del prossimo, anzi a danno del prossimo: san Tommaso d'Aquino, tra i vizi contrari alla prudenza, ne elenca uno che egli chiama "prudenza secondo la carne". Gesù ci invita a essere prudenti sia nei beni materiali sia nei beni spirituali: i primi non possono andare a detrimento della salvezza dell'anima.

E questo ci spiega perché Gesù conclude dicendo: io dico a voi: fatevi degli amici con le ricchezze disoneste, affinché, quando verrete a mancare, essi vi accolgano nelle loro dimore eterne. In questo modo, il Signore raccomanda il sostegno reciproco tra fratelli, all'interno della Chiesa, laddove possibile, a seconda delle disponibilità e della libertà di ciascuno, senza badare al modo con cui certi beni temporali possono essere stati procurati. I figli del mondo si procurano ricchezze con modi disonesti e per fini disonesti (Gesù parla di mammona iniquitatis, dove mammona non indica il denaro, ma il lusso), ma se questi beni materiali finiscono nelle nostre mani, noi possiamo usarli per un bene superiore: il denaro infatti è un mezzo - non è un fine - e come tutti i mezzi esso non è né buono né cattivo intrinsecamente. L'amore verso il prossimo, allora, assume grandissimo valore espiativo e ci permetterà di essere accolti nelle dimore eterne, cioè di conseguire la vita eterna.

Gaetano Masciullo

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