martedì 31 ottobre 2023

La santità, nostra meta

 

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 5, 1-12.
In illo témpore: Videns Iesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli eius, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt iustítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequéntur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter iustítiam: quóniam ipsórum est regnum cælórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis, et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudéte et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 5, 1-12.

In quel tempo, Gesù, vedendo le turbe, salì sulla montagna. Sedutosi, ed avvicinatisi a Lui i suoi discepoli, così prese ad ammaestrarli: beati i poveri di spirito, perché di questi è il regno dei cieli. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per amore della giustizia, perché di questi è il regno dei cieli. Beati siete voi, quando vi malediranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno di voi ogni male per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli.

Cos'è la santità? È l'ambizione - o almeno, dovrebbe essere - di tutti noi credenti. In cosa consiste la santità? Nel conservare la grazia di Dio, cioè vivere lontani dal peccato, almeno mortale, e per fare ciò bisogna anzitutto osservare i dieci Comandamenti di Dio, i cinque precetti della Chiesa, frequentare assiduamente i Sacramenti, in particolare la Confessione e l'Eucarestia. Tutto questo però non basta: tutte queste cose stanno alla santità come le scuole elementari stanno all'uomo adulto.

Sicuramente sono cose necessarie per il cristiano, e per ottenere salvezza è necessario passare per esse, ma siamo chiamati sin da questa vita a essere "perfetti come il Padre" e tale perfezionamento della santità si vive godendo dei doni dello Spirito Santo, che è possibile avere solo se si impara a vivere nella grazia. Il peccato mortale, infatti, ogni qualvolta lo si compie, caccia lo Spirito Santo dall'anima, ed è simile a un uomo che caccia il padrone dalla sua legittima casa per insediarvi un ladro; o a un prete che caccia Dio dal tempio che Egli ha voluto costruire per sè per mettere al suo posto un idolo falso e bugiardo; oppure è come una moglie che caccia il marito dal proprio talamo per mettervi al suo posto un omicida e un perverso. 

Quando invece lo Spirito Santo inabita con la grazia, cioè con tutto se stesso, la casa dell'anima, ecco che Egli reca con sè i suoi santi sette doni, come fa un ospite illustre e ben gradito quando viene invitato sotto il nostro tetto: "Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui - dice il Signore - [e] il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto" (Gv 14, 23.26). Ora i sette doni sono sette virtù infuse che servono a corroborare le virtù fondamentali, cioè le tre virtù teologali (fede, speranza, carità) e le quattro virtù cardinali (prudenza, fortezza, temperanza, giustizia).

I santi, dunque, sono coloro che hanno saputo non solo custodire i doni dello Spirito Santo, ma anche fruttificarli. Le Beatitudini, allora, sono l'elenco che Gesù fa per illustrare in cosa consista la santità vera. Noi sappiamo che i sette doni sono sapienza, intelletto, scienza, consiglio, fortezza, pietà e timor di Dio. Le Beatitudini descrivono il merito e il premio che i doni causano nell'anima del santo. Esse sono otto, cioè una in più rispetto ai doni, perché l'ultima riepiloga il merito e il premio comune a tutte le precedenti, e cioè: "Beati voi quando vi malediranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno di voi ogni male per causa mia: rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli". L'odio del mondo è una conseguenza inevitabile per coloro che amano Dio, ma dalla sopportazione dell'odio mondano (merito) scaturisce il Paradiso (premio).

Vediamo invece velocemente a cosa si riferiscono le sette Beatitudini precedenti. Il dono che corrobora la virtù della speranza è il timore di Dio, che rende "poveri in spirito" di desideri fallaci, ma ricchi di desideri celesti (merito), e ci fa vivere il Regno di Dio già su questa terra (premio). Il dono che corrobora la virtù della fortezza, e che prende lo stesso nome, rende miti (merito) ed eredi del mondo futuro (premio). La fede è corroborata da due doni dello Spirito Santo: uno è il dono della scienza, che dà come merito quello di "essere nel pianto", cioè di soffrire quando si assiste a tanto male che l'umanità per ignoranza, ingratitudine o malignità commette, e come premio quello di essere consolati nientemeno che da Dio stesso. 

Il dono che corrobora la virtù della giustizia è la pietà, cioè la sottomissione volontaria e arrendevole alla volontà di Dio, che come un sole interiore diffonde i propri raggi e ci rende desiderosi di giustizia in ogni ambito (merito), desiderio che sarà soddisfatto dallo stesso Dio, somma giustizia (premio). Il dono che corrobora la prudenza è il consiglio, che ci fa agire sempre secondo la regola della misericordia (merito) e che ci ottiene da Dio misericordia (premio). L'altro dono che corrobora la fede è l'intelletto, che ci fa penetrare le verità divine con "cuore puro", cioè senza le lenti corrotte del peccato (merito) e, di conseguenza, ci fa vedere Dio che è somma verità (premio). Il dono che corrobora la carità è la sapienza, che ci rende "operatori di pace", cioè dà a ogni nostra azione la capacità di infondere nell'anima nostra un senso di pace costante (merito), e ci rende immagine vera del Figlio di Dio, re di pace (premio). 

Gaetano Masciullo

sabato 28 ottobre 2023

Chiamati a essere cavalieri del Re del Cielo


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Ioánnem 18, 33-37.

In illo témpore: Dixit Pilátus ad Iesum: Tu es Rex Iudæórum? Respóndit Iesus: A temetípso hoc dicis, an álii dixérunt tibi de me? Respóndit Pilátus: Numquid ego Iudǽus sum? Gens tua et pontífices tradidérunt te mihi: quid fecísti? Respóndit Iesus: Regnum meum non est de hoc mundo. Si ex hoc mundo esset regnum meum, minístri mei útique decertárent, ut non tráderer Iudǽis: nunc autem regnum meum non est hinc. Dixit ítaque ei Pilátus: Ergo Rex es tu? Respóndit Iesus: Tu dicis, quia Rex sum ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimónium perhíbeam veritáti: omnis, qui est ex veritáte, audit vocem meam.

Séguito del S. Vangelo secondo Giovanni 18, 33-37.

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: "Sei tu il Re dei Giudei?" Gesù gli rispose: "Lo dici da te, o altri te l’hanno detto di me?" Rispose Pilato: "Sono forse io Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno messo nelle mie mani. Che cosa hai fatto?" Rispose Gesù: "Il mio regno non è di questo mondo. Se fosse di questo mondo, i miei ministri certo si adopererebbero perché non fossi dato in potere dei Giudei: dunque il mio regno non è di quaggiù". Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei Re?" Rispose Gesù: "Tu lo dici, io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla verità. Chiunque sta dalla parte della verità, ascolta la mia voce".

Oggi la Chiesa festeggia, secondo il calendario tradizionale, la grande solennità di Cristo Re dell'Universo. Il vangelo proclamato in quest'occasione liturgica ci ricorda che il Signore Gesù è sì un re, ma non un re "di questo mondo". Come mai allora la Chiesa lo proclama Signore dell'universo, cioè di tutto ciò che esiste, incluso questo mondo?

In primo luogo, Cristo è Signore anche di questo mondo in virtù del suo essere Dio e creatore del cosmo. Questa dimensione di creaturalità attribuisce a Dio questo diritto di dominio, ma non è l'unico. Segue infatti un diritto di legislatore e poi anche un diritto paterno. In effetti, se Dio è creatore di tutte le cose, poiché rientra nella definizione di divinità l'essere sommamente buono, allora Dio esercita la propria signoria sul creato secondo un buon governo. Il governo di Dio sul cosmo prende il nome di Provvidenza, e non valgono le obiezioni di coloro che dicono che, se Dio fosse davvero buono, allora non vi sarebbero nel mondo i conflitti, le malattie, le ingiustizie ai danni degli innocenti, perché il buon governo di Dio non può andare a scapito della libertà umana, che è la vera causa di un duplice peccato, personale - che quindi attira la necessità di giustizia e riequilibrio sull'individuo che lo commette -, e anche originale - che quindi coinvolge l'intera creazione in una dimensione di debito verso la Somma Giustizia che è lo stesso Dio.

Poiché Dio è governante sapiente e buono, egli è - come ogni Re - un legislatore: la Legge morale consegnata da Dio a Mosè e perfezionata dalla carità di Cristo è per noi la cartina da seguire per vivere pienamente nella dimensione di grazia e godere costantemente della santa protezione divina. Come si diceva, però, la regalità di Dio assume anche una dimensione di paternità. Ecco perché lo stesso Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio con il tenero nome di Padre, e di questo diritto il Signore Gesù partecipa in quanto della stessa natura divina. Ogni credente battezzato è coerede di Cristo, cioè partecipa della stessa figliolanza di Gesù, anche se in maniera adottiva, non naturale.

Gesù dunque dice a Pilato che il suo regno non è di questo mondo, giacché gli uomini - vivendo nel peccato - hanno per così dire spodestato Dio e hanno consegnato le chiavi del potere a Satana. Nello stesso vangelo secondo Giovanni, così infatti dice Gesù a proposito della sua Passione: "Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori" (Gv 12, 31). Anche vero è che il Signore nella preghiera del Pater ci ha insegnato a chiedere a Dio: "venga il tuo regno", a dimostrazione che tra i doveri del cristiano c'è quello di allargare i confini del Regno di Dio già in questa vita e su questa terra tramite una vita virtuosa e in grazia, secondo quella promessa di san Paolo: "poi verrà la fine, quando [Cristo] consegnerà il regno nelle mani di Dio Padre, dopo che avrà ridotto al nulla ogni principato, ogni potestà e ogni potenza. Poiché bisogna che egli regni finché abbia messo tutti i suoi nemici sotto i suoi piedi" (1Cor 15, 24-25). Dunque il regno di Cristo in questo mondo è già in atto, ed è iniziato sul trono della Croce. Noi siamo chiamati a essere suoi cavalieri, per allargare i suoi confini.

Gaetano Masciullo


sabato 21 ottobre 2023

Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 18, 23-35

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, iussit eum dóminus eius venúmdari et uxórem eius et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes. Et prócidens consérvus eius, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi eius, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus eius, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum. Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 18, 23-35

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: "Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. E avendo iniziato a fare i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Ma non avendo costui modo di pagare, il padrone comandò che fosse venduto lui, sua moglie, i figli e quanto aveva, e così fosse saldato il debito. Il servo, però, gettatosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Mosso a pietà, il padrone lo liberò, condonandogli il debito. Ma il servo, partito da lì, trovò uno dei suoi compagni che gli doveva cento denari: e, presolo per la gola, lo strozzava dicendo: Pagami quello che devi. E il compagno, prostratosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Ma quegli non volle, e lo fece mettere in prigione fino a quanto lo avesse soddisfatto. Ora, avendo gli altri compagni veduto tal fatto, se ne attristarono grandemente e andarono a riferire al padrone tutto quello che era avvenuto. Questi allora lo chiamò a sé e gli disse: Servo iniquo, io ti ho condonato tutto quel debito, perché mi hai pregato: non dovevi dunque anche tu aver pietà di un tuo compagno, come io ho avuto pietà di te? E sdegnato, il padrone lo diede in mano ai carnefici fino a quando non avesse pagato tutto il debito. Lo stesso farà con voi il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello".

Come stona questa parabola con quanto si sente dire da tanti sacerdoti e teologi cattolici di oggi, secondo i quali Dio non terrebbe conto di ogni singolo peccato che l'uomo commette, come se fosse un freddo contabile. Eppure, Gesù ci dice quest'oggi che "Il regno dei cieli è come un re che volle fare i conti con i suoi servi". Non dobbiamo dimenticare che quando Gesù ci parla del Regno dei cieli non sta parlando semplicemente della vita futura, ma di se stesso - Cristo è il Regno - e di conseguenza della vita della Chiesa, perché la Chiesa è il Corpo Mistico di Gesù Cristo.

Un Dio che non tiene conto, come si dice, di tutto il male e di tutto il bene compiuto, che razza di Dio sarebbe? Questo modo di concepire Dio non andrebbe tanto a scapito della sua potenza, quanto della sua giustizia e della sua misericordia. Se Dio coprisse senza criterio i peccati, e premiasse gli uomini con la beatitudine piena ed eterna senza un motivo particolare, allora i tanti torti fatti o subìti in questa vita resterebbero dimenticati e anche gli atti di bontà e ordinario eroismo verrebbero confusi con una malefatta qualunque. Questo modo di concepire Dio, che non tiene conto di ogni singola azione per quanto piccola essa sia, è un modo molto umano di ragionare, che va contro la sua Parola. Si tratta di un Dio comodo, perché asseconda le nostre voglie, il nostro desiderio di irresponsabilità, un Dio che perdona perché è tutto amore, senza capire che invece Dio ha eccome un criterio per perdonare, e la gratuità della sua Misericordia non corrisponde a un'assenza di criterio del perdono divino, quanto a un'assenza di capacità da parte delle nostre sole forze di meritarlo.

Così, se leggiamo questa parabola fuori di metafora, comprendiamo cosa il Signore vuole dirci. Il debito è nel linguaggio evangelico un sinonimo del peccato. Si pensi alla preghiera insegnata dal Cristo, che dice tra le altre cose: "rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori". La cifra indicata nella parabola è veramente esagerata e sproporzionata: all'epoca di Gesù, un talento corrispondeva a un lingotto d'oro pesante quasi 60 chilogrammi. Si capisce dunque che la cifra di diecimila talenti corrispondeva a un debito impossibile da ripagare. Tale era la condizione dell'essere umano all'epoca di Cristo: il peccato originale e i peccati personali avevano chiuso le porte del Paradiso ad ogni uomo.

Gesù ci dice che questo re, per vedere saldato il debito, ordina di vendere il debitore, tutta la sua famiglia, e tutti i suoi averi. Il peccato non è qualcosa privo di conseguenze. Ogni colpa ha un duplice effetto: una macchia sulla coscienza e una pena da scontare. Spesso le conseguenze dei peccati ricadono non soltanto su chi li compie, ma anche su coloro che lo amano: "Io sono un Dio geloso che punisce la colpa dei padri nei figli" (Es 20, 5). E molto spesso le pene per certi peccati vengono scontate da persone innocenti, che soffrono al posto dei veri colpevoli. In teologia morale si parla a proposito di sofferenza vicaria, che è propria dei santi, su modello dello stesso Cristo, il quale - sommamente innocente - subì la pena destinata all'umanità tutta per espiare il debito del peccato antico.

Nella parabola, basta tuttavia la semplice supplica sincera e contrita del debitore per muovere il re a compassione, tanto da spingerlo a condonare l'intero sproporzionato debito. Il Signore però ci chiede di non fare di due pesi anche due misure, e qui ritorna ancora la preghiera insegnata da Gesù: "rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori". Il debitore, ormai graziato, si mostra crudele verso un suo debitore. Notiamo però che il debito che egli aveva è assai piccolo al confronto: solo cento denari. Se l'uomo che riceve il perdono di Dio non sa perdonare a sua volta i fratelli non è degno del Regno dei Cieli, e pertanto viene escluso dalla salvezza e "consegnato ai carnefici", cioè all'Inferno.

Gaetano Masciullo

sabato 7 ottobre 2023

Le nozze mistiche di Cristo con la Chiesa


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 22, 1-14.

In illo témpore: Loquebátur Iesus princípibus sacerdótum et pharisǽis in parábolis, dicens: Símile factum est regnum cœlórum hómini regi, qui fecit núptias fílio suo. Et misit servos suos vocáre invitátos ad nuptias, et nolébant veníre. Iterum misit álios servos, dicens: Dícite invitátis: Ecce, prándium meum parávi, tauri mei et altília occísa sunt, et ómnia paráta: veníte ad núptias. Illi autem neglexérunt: et abiérunt, álius in villam suam, álius vero ad negotiatiónem suam: réliqui vero tenuérunt servos eius, et contuméliis afféctos occidérunt. Rex autem cum audísset, iratus est: et, missis exercítibus suis, pérdidit homicídas illos et civitátem illórum succéndit. Tunc ait servis suis: Núptiæ quidem parátæ sunt, sed, qui invitáti erant, non fuérunt digni. Ite ergo ad exitus viárum et, quoscúmque invenéritis, vocáte ad núptias. Et egréssi servi eius in vias, congregavérunt omnes, quos invenérunt, malos et bonos: et implétæ sunt núptiæ discumbéntium. Intrávit autem rex, ut vidéret discumbéntes, et vidit ibi hóminem non vestítum veste nuptiáli. Et ait illi: Amíce, quómodo huc intrásti non habens vestem nuptiálem? At ille obmútuit. Tunc dixit rex minístris: Ligátis mánibus et pédibus eius, míttite eum in ténebras exterióres: ibi erit fletus et stridor déntium. Multi enim sunt vocáti, pauci vero elécti.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 22, 1-14.

In quel tempo, Gesù parlava ai principi dei sacerdoti e ai Farisei con parabole, dicendo: "Il regno dei cieli è simile a un re, il quale celebrò le nozze del suo figlio: egli mandò i suoi servitori a chiamare gli invitati alle nozze; ma questi non volevano andare. Mandò di nuovo altri servitori a dire agli invitati: Il mio pranzo è già pronto: sono stati uccisi i miei tori e gli animali grassi, e tutto è pronto: venite alle nozze. Ma quelli non se ne curarono, e se ne andarono chi alla sua villa, chi al suo negozio. Altri poi, presi i servi di lui, li trattarono a contumelie e li uccisero. Udito ciò, il re si sdegnò: e mandate le sue milizie sterminò quegli omicidi e dette alle fiamme la loro città. Allora disse ai suoi servi: Le nozze sono pronte, ma quelli che erano stati invitati non furono degni. Andate, dunque, agli angoli delle strade e quanti incontrerete chiamateli alle nozze. E andati i servi di lui per le strade, radunarono quanti trovarono, buoni e cattivi, sì che la sala del banchetto fu piena di convitati. Entrato il re per vedere i convitati, vide un uomo che non era in abito da nozze. E gli disse: Amico, come sei entrato qua, non avendo la veste nuziale? Ma quegli ammutolì. Allora il re disse ai suoi ministri: Legatelo mani e piedi, e gettatelo nelle tenebre all'esterno: lì sarà pianto e stridore di denti. Poiché molti sono i chiamati, e pochi gli eletti".

Nella parabola di oggi, il Signore ci invita a riflettere sulla missione salvifica universale della Chiesa. Quando il Signore Gesù parla nel vangelo di Regno dei Cieli fa riferimento a una duplice dimensione: a se stesso e alla Chiesa. Cristo e la Chiesa, infatti, non sono due realtà distinte, ma profondamente unite, quasi una cosa sola: non a caso, si dice che la Chiesa è il Corpo mistico di Cristo. Forse che noi non percepiamo un'identità con il nostro stesso corpo?

Come Cristo, anche la Chiesa gode di una duplice natura: veramente umana e veramente divina. L'unione mistica di Dio con la comunità di coloro che amano e vivono secondo la sua Legge e che sono salvati dalla Fede in lui è rappresentata nella Scrittura dall'immagine delle nozze, immagine che ritroviamo anche in questa parabola: il re - cioè Dio Padre - organizza le nozze per il proprio figlio, cioè dall'eternità prepara il disegno di unire misticamente Dio e la Chiesa per mezzo del Figlio suo Gesù. 

Questo re, sin dalla fondazione del mondo, ha inviato i propri servi agli uomini per prepararli a questa grande verità. Questi servi sono i profeti. In particolare, il re celeste ha nutrito cura amorevole verso gli israeliti, i discendenti secondo la carne di Abramo, Isacco e Giacobbe, in virtù della giustizia di questi patriarchi che hanno saputo conservare la Fede nell'unico Dio tra mille prove e tribolazioni, e questa perseveranza fu tributata loro come giustizia. 

Ma i profeti sono stati maltrattati dai discendenti di Giacobbe, e il Signore ci mostra nella parabola un duplice maltrattamento che rischiamo di mettere in pratica anche noi cattolici oggi, ed entrambi i tipi di maltrattamento sono ripudiati dal Signore. Il primo tipo è quello dell'indifferenza, mentre il secondo è quello dell'odio che porta fino alla calunnia e, nei casi estremi, all'omicidio. Dio si mostra come giusto giudice verso coloro che si sono mostrati ingrati nei confronti del suo piano di salvezza, e si mostra come salvatore misericordioso verso coloro che muoiono per la sua Parola di salvezza.

Ecco dunque che il piano di salvezza del Signore, che trova incarnazione più alta e feconda nella Chiesa, non si estende più limitatamente a questo o a quel popolo, ma a tutti gli uomini di buona volontà. Il Signore dice: "a buoni e cattivi", cioè non solo ai pagani, ma anche gli stessi israeliti che hanno maltrattato i profeti sono chiamati alla conversione all'unica vera Fede, perché - come ricorda san Paolo - i doni di Dio sono irrevocabili. 

L'ultima parte della parabola merita qualche riflessione in più. Il Signore Gesù ci dice che il re, giunto nella sala durante le nozze, che rappresentano la vita eterna, scorge un uomo che non indossa l'abito nuziale e, per questa mancanza, viene gettato nelle tenebre "dove sarà pianto e stridore di denti", cioè nell'inferno. L'abito nuziale rappresenta il carattere del Battesimo, che viene applicato su di noi sacramentalmente e che ci rende figli adottivi di Dio, coeredi di Cristo, meritevoli di nuovo del Paradiso. Non è possibile essere salvati senza questo sacramento grande.

Gaetano Masciullo

L'Ascensione, festa della Speranza

Sequéntia S. Evangélii secundum Marcum 16, 14-20. In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit in...