sabato 25 giugno 2022

Qual è il significato delle parabole della pecora e della dracma?

El Evangelio Comentado: Misericordiosos como el Padre (Lc 15, 1-10)

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 15, 1-10.
In illo témpore: Erant appropinquántes ad Iesum publicáni et peccatóres, ut audírent illum. Et murmurábant pharisǽi et scribæ, dicéntes: Quia hic peccatóres recipit et mandúcat cum illis. Et ait ad illos parábolam istam, dicens: Quis ex vobis homo, qui habet centum oves: et si perdíderit unam ex illis, nonne dimíttit nonagínta novem in desérto, et vadit ad illam, quæ períerat, donec invéniat eam? Et cum invénerit eam, impónit in húmeros suos gaudens: et véniens domum, cónvocat amícos et vicínos, dicens illis: Congratulámini mihi, quia invéni ovem meam, quæ períerat? Dico vobis, quod ita gáudium erit in cœlo super uno peccatóre pœniténtiam agénte, quam super nonagínta novem iustis, qui non índigent pœniténtia. Aut quæ múlier habens drachmas decem, si perdíderit drachmam unam, nonne accéndit lucérnam, et evérrit domum, et quærit diligénter, donec invéniat? Et cum invénerit, cónvocat amícas et vicínas, dicens: Congratulámini mihi, quia invéni drachmam, quam perdíderam? Ita dico vobis: gáudium erit coram Angelis Dei super uno peccatóre pœniténtiam agénte.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 15,1-10.
In quel tempo, si erano accostati a Gesù pubblicani e peccatori per ascoltarlo. E gli scribi e i farisei mormoravano, dicendo: "Egli riceve i peccatori e mangia con essi". Allora egli disse questa parabola: "Chi di voi, avendo cento pecore, perdutane una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella smarrita finché la ritrova? E, ritrovatala, non la pone contento sulle spalle e, tornato a casa, raduna amici e vicini, dicendo loro: congratulatevi con me, perché ho ritrovata la pecora che si era smarrita? Io vi dico che in Cielo vi sarà più gioia per un peccatore che fa penitenza che non per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza. E qual è quella donna che, avendo dieci dracme, se ne avrà perduta una, non accende la lucerna e non spazza tutta la casa e non cerca diligentemente finché non la ritrova? E appena la avrà ritrovata non chiama le amiche e le vicine, dicendo loro: congratulatevi con me, perché ho ritrovata la dracma che avevo perduta? Io vi dico che vi sarà una grande gioia tra gli Angeli di Dio per un peccatore che fa penitenza".

Il vangelo di oggi ci presenta due parabole del vangelo di Luca, ossia la parabola della pecora smarrita e la parabola della dracma ritrovata. L'occasione in cui Gesù le pronuncia è un atto di mormorazione da parte degli scribi e dei farisei. Che cos'è la mormorazione?

Esso è un peccato molto grave: oggi potremmo identificarlo con quello che chiamiamo pettegolezzo. San Tommaso d'Aquino delinea un profilo molto chiaro di questo peccato. Egli lo definisce "figlia - cioè effetto - dell'invidia". In effetti, i farisei e gli scribi erano invidiosi dell'autorità che Gesù riscontrava tra il popolo. Ora la mormorazione "si ha quando uno sminuisce la fama altrui di nascosto" (S.Th. II-II, q. 37, a. 4, ad 3). In teologia morale, essa si distingue dalla diffamazione, che invece si ha quando uno sminuisce la fama altrui in maniera manifesta. Questo dato è interessante. Nonostante l'atteggiamento nascosto dei suoi avversari, Gesù sapeva cosa c'era nel loro cuore.

"Allora - cioè per questo loro peccato - egli disse loro questa parabola". I farisei cercavano di sminuire l'autorità di Gesù sottolineando il fatto che egli frequentava i peccatori pubblici, come gli esattori delle tasse, al soldo dell'odiato Impero romano, e le prostitute. Le parabole di Cristo servono a confermare la sua autorità tra il popolo. Non a caso, queste due parabole occupano il posto centrale all'interno della sequenza di Luca che descrive il viaggio di Gesù verso Gerusalemme (9,51-19,28), quasi a volere illustrare la vera economia della salvezza.

Queste parabole, insieme a quella del figliol prodigo, rappresentano il blocco delle parabole sulla Misericordia divina. Se le analizziamo una di fianco all'altro, vediamo con grande interesse che esse presentano un crescendo di concentrazione: nella parabola della pecora smarrita, leggiamo che a perdersi è una pecora su cento; nella parabola della dracma, a perdersi è una dracma su dieci; nella parabola del figliol prodigo, a perdersi è un figlio su due. Anche il valore dell'oggetto perduto aumenta di intensità: una pecora, una dracma, un essere umano.

La prima parabola - quella della pecora smarrita - ha una struttura abbastanza semplice. Una pecora si perde; il pastore la cerca; il pastore la trova e la pone sulle spalle; il pastore torna a casa; il pastore festeggia con gli amici. Si badi bene che Gesù esordisce con un paradosso: "Chi di voi, avendo cento pecore, perdutane una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella smarrita finché la ritrova?". La risposta è scontata: nessuno abbandonerebbe novantanove pecore nel deserto. Meglio perderne una che perderne novantanove! Ma in questo paradosso Gesù vuole mostrare la logica divina: Egli ama così tanto l'uomo che vuole liberarlo dal peccato a ogni costo.

Molto importante in questa parabola è il gesto del pastore che mette la pecora sulle proprie spalle. Esso è un'immagine della croce, posta sulle spalle di Cristo, il giogo che ha riscattato l'uomo dal peccato originale. E' in virtù di questo sacrificio, infatti, che Gesù Cristo, il buon pastore, ha riportato la pecora a casa, cioè in Cielo, dove "festeggia con gli amici", cioè dove vi sarà beatitudine eterna.

La seconda parabola - quella della dracma ritrovata - ha una struttura apparentemente analoga: la donna perde la dracma; la donna accende la lucerna; la donna spazza la casa; la donna ritrova la dracma; la donna festeggia con le amiche. In questo caso, ci sono due gesti che attirano la nostra attenzione, ossia quello di accendere la lucerna e quello di spazzare la casa. Questi due gesti denotano che sono necessarie due cose per la conversione del peccatore, due aspetti che i farisei non consideravano.

Il primo aspetto è l'accettazione della fede, cioè delle verità rivelate da Dio e insegnate dalla Chiesa. E questo aspetto è figurato dal gesto della donna che accende la lucerna per cercare la dracma. Infatti, la fede è la prima virtù teologale, dalla quale si generano la speranza e la carità. Senza la Fede, non è possibile essere salvati. Il secondo aspetto è la dissipazione dei vizi, che avviene attraverso una corretta penitenza. Esso è figurato dal gesto di spazzare la casa. Il vero peccatore pentito, infatti, è colui che agisce per confermarsi nella virtù. "Va' e non peccare più" - queste sono le parole che Gesù ripete spesso nel vangelo quando sana un peccatore nell'anima o nel corpo.

In entrambi i casi la morale presentata dallo stesso Gesù è la stessa: in Cielo, c'è più gioia per un peccatore che fa penitenza che per i giusti che non abbisognano di penitenza. Questo aspetto è importante ed è spesso sottaciuto dai teologi contemporanei. Il peccatore ritorna al Padre quando fa penitenza, che non è lo stesso che dire: quando si pente del peccato commesso. Per approfondire sul vero significato cattolico di "penitenza", rimando a questo mio articolo.

Gaetano Masciullo

sabato 18 giugno 2022

Come può Cristo essere realmente nel pane consacrato?

Eucarestia, un pane per crescere in accoglienza e prossimità

Sequéntia S. Evangélii secundum Ioánnem 6, 56-59.
In illo témpore: Dixit Iesus turbis Iudaeórum: Caro mea vere est cibus, et sánguis meus vere est potus. Qui mandúcat meam carnem, et bibit meum sánguinem, in me manet, et ego in illo. Sicut misit me vivens Pater, et ego vivo propter Patrem: et qui mandúcat me, et ipse vivet propter
me. Hic est panis, qui de coelo descéndit. Non sicut manducavérunt patres vestri manna, et mórtui sunt. Qui mandúcat hunc panem, vivet in aetérnum.

Seguito del S. Vangelo secondo Giovanni 6, 56-59.
In quel tempo, Gesù disse alle turbe dei giudei: "La mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, vive in me e io in lui. Come è vivo il Padre che mi ha mandato e io vivo del Padre, così chi mangia la mia carne vive di me. Questo è il pane che discende dal Cielo. Non come i vostri padri che mangiarono la manna e sono morti. Chi mangia questo pane vivrà in eterno.

La festa del Corpus Domini - Corpo del Signore - fu istituita da papa Urbano IV nel 1264, in seguito al celebre miracolo eucaristico di Bolsena. La festa riporta le nostre menti a quella sera della Settimana Santa, a quel Giovedì in cui Cristo istituì all'unisono i Sacramenti del Sacerdozio e dell'Eucarestia, poiché non è concepibile l'uno senza l'altro. L'Eucarestia è il fine supremo del sacerdote e, con lui, di tutto il popolo di Dio.

Il fine della solennità odierna dunque è quello di ricordare ai fedeli che Gesù Cristo è realmente presente nell'Eucarestia, cioè nel pane e nel vino consacrati, con il suo corpo, il suo sangue, la sua anima e la sua Divinità. Non crediamo che il pane sia la sola carne e che il vino sia il solo sangue (come volevano gli eretici hussiti), ma che in ogni minimo frammento di pane e nella più minuscola goccia di vino ci sia Cristo tutto intero.

Il vangelo di oggi è importante perché san Giovanni scrisse questo testo per confutare gli eretici, già abbondanti tra i cristiani pochi anni dopo la morte di Gesù, i quali negavano la natura divina di Cristo. E' interessante notare che le chiese protestanti, le quali, pur riconoscendo la natura divina di Cristo, negano il Sacramento dell'Eucarestia e quindi la presenza reale di Cristo nelle specie consacrate, usano il metodo letterale per approcciarsi all'esegesi della Scrittura, tranne in quei punti in cui la stessa Bibbia dà inevitabilmente ragione alla Chiesa cattolica. In quei casi, i teologi protestanti ripiegano sul senso allegorico.

Ma il brano di vangelo odierno sembra non voler lasciare spazio a dubbi. L'avverbio che l'evangelista Giovanni utilizza non è ambiguo: "la mia carne è veramente cibo e il mio sangue è veramente bevanda". Come a voler dire: qui non c'è nessuna allegoria. Ma come può Cristo essere presente davvero in un pezzo di pane o in un calice di vino? Qualche provocatore, in maniera stolta, ha detto che, se l'Eucarestia è davvero il corpo di Cristo, allora i cattolici sono cannibali.

Questa affermazione è in realtà un sofismo. E la ragione è presto detta.

Bisogna capire cosa si intende quando si parla di presenza reale di Cristo eucaristico. Il pane, anche dopo la consacrazione, rimane pane sia sotto l'aspetto della quantità sia sotto l'aspetto della qualità. Si dice in teologia che rimangono gli accidenti del pane. Infatti, vediamo che la quantità dell'ostia non è la quantità del corpo di Cristo. Lo stesso discorso vale per le qualità: per esempio, il sapore dolce è una qualità del pane, che rimane dopo la consacrazione; l'avere i capelli lunghi era una qualità di Gesù, che ovviamente l'ostia non assume. Il cannibale è colui che si ciba di carne umana che è tale nella sostanza e in ogni suo accidente. Il corpo del cattolico invece si ciba di pane e di vino, anche quando assume le specie consacrate. E il suo organismo reagisce come reagirebbe all'ingestione di pane e vino non consacrati.

Cosa c'è dunque di Cristo nell'ostia consacrata, dietro i veli degli accidenti del pane e del vino? La risposta è semplice da dire, ma un po' più difficile da comprendere: la sostanza. Di essa non si nutre il nostro corpo, ma la nostra anima immortale. E certamente, poiché l'anima è superiore al corpo ed è anzi chiamata a dominarlo, chi riceve degnamente (si legga: in stato di grazia) l'Eucarestia benefica anche il corpo.

La sostanza dell'essere umano non è la sua sola carne o la sua sola anima, ma l'unione di tutte e due. In Gesù Cristo questo è vero, ma non basta. La natura umana - già duplice - è unita intimamente alla natura divina, cosicché il Figlio è una sola Persona con due nature, distinte eppure unite. E questo tutt'uno, che è il Figlio divino, è presente nella sostanza nell'Eucarestia, non secondo il luogo o secondo gli accidenti corporei.

Si parla pertanto di transustanziazione eucaristica: transustanziazione, cioè "passaggio di sostanza". Il pane ha una sua sostanza, prodotta dalla lavorazione umana del frumento, ma quella sostanza - fatta di una certa materia e di una certa forma - cede il passo a una sostanza più perfetta e celeste, dopo che il sacerdote intenzionalmente lo consacra e pronuncia quelle parole che la Chiesa comanda di usare per la consacrazione.

Questo significa che il pane consacrato non ha più la sostanza del pane, neanche la materia del pane, ma solo i suoi accidenti. I miracoli eucaristici servono anche a dimostrare questa realtà, che l'intelletto umano può spesso capire con gravi difficoltà e quindi difficilmente credere. Si consideri il miracolo eucaristico di Lanciano. Le ostie, nonostante siano passati secoli, sono ancora là, con i loro accidenti di pane, eppure natura vorrebbe che quel pane sia ammuffito e decomposto. Se solo fosse sostanzialmente pane. Il punto è che quel pane non è davvero pane, ma è Gesù Cristo negli accidenti di pane. Per questa ragione, san Tommaso d'Aquino scrive nella Summa theologiae che è dottrinalmente sbagliato dire: "Questo pane è il corpo di Cristo" (S.Th. III, q. 75, a. 8, co.), ma che si dovrebbe piuttosto dire, come fa sant'Ambrogio di Milano nella sua opera I Sacramenti, "dal pane si ottiene il corpo di Cristo" (De Sacr. IV, 4, 14).

Gaetano Masciullo

sabato 11 giugno 2022

Come può Dio essere uno e trino?

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum, 28, 18-20.
In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Data est mihi omnis potéstas in coelo et in terra. Eúntes ergo docéte omnes gentes, baptizántes eos in nómine Patris, et Fílii, et Spíritus Sancti: docéntes eos serváre ómnia, quecúmque mandávi vobis. Et ecce ego vobíscum sum ómnibus diébus, usque ad consummatiónem saéculi.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo, 28, 18-20.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Mi è dato ogni potere in cielo e in terra. Andate, dunque, e istruite tutte le genti, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, e insegnando loro ad osservare tutto quello che vi ho comandato. Ed ecco che io sarò con voi tutti i giorni fino alla consumazione dei secoli.

La Trinità è sicuramente uno dei dogmi più difficili da comprendere e uno di quelli più complessi da spiegare. Solitamente, quando si vuole spiegare la Trinità, si ricorre alla figura del triangolo, ma in realtà questa soluzione è insoddisfacente, perché non dà l'idea della corretta relazione che intercorre tra le persone trinitarie.

Le parole utilizzate in teologia per delineare questi rapporti non sono casuali. Il Padre genera il Figlio e poi, insieme al Figlio, spira lo Spirito Santo. Il Figlio quindi è generato dal Padre, mentre lo Spirito Santo è spirato dal Figlio e dal Padre. Sarebbe sbagliato dire, per esempio, che il Padre genera lo Spirito Santo.

San Patrizio, il grande evangelizzatore d'Irlanda, utilizzò come simbolo per spiegare la Trinità ai popoli celtici il trifoglio. La foglia è unica, ma le punte sono distinte e in relazione l'una con l'altra. Anche questo esempio però è riduttivo e serviva a comunicare un mistero ineffabile come quello trinitario a persone semplici e analfabete. San Tommaso d'Aquino, nel suo opuscolo Contra errores graecorum, scrive che bisognerebbe paragonare la Trinità a una catena, più che a un triangolo. La ragione è presto detta.

Se concepiamo le relazioni trinitarie in forma di triangolo, rischiamo di adottare un'idea falsa di Dio. Noi cattolici crediamo - a differenza degli scismatici orientali - che "lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio". Varie chiese eretiche orientali, invece, affermano che lo Spirito Santo proceda dal solo Padre. Non è solo una questione di sottigliezze teologiche: se è vero che l'universo, e l'uomo in particolare, è stato creato a immagine di Dio, allora anche la processione dal solo Padre oppure dal Padre e dal Figlio fa la differenza. Bisogna solo capire in che termini.

Dobbiamo dunque pensare alla Trinità come a una catena. Ma cosa significano le Tre Persone? E come può essere Dio uno solo e indiviso se ci sono Tre Persone realmente distinte?

Tutti gli attributi che si predicano di Dio - la gloria, la sapienza, l'onnipotenza, la giustizia, la misericordia, ecc. - si predicano in egual misura del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Ma allora in cosa si differenziano realmente l'una dall'altra?

Solitamente attribuiamo la potenza al Padre, la sapienza al Figlio e l'amore allo Spirito Santo. Ma queste attribuzioni non sono reali, nel senso che vengono attribuite alle Persone trinitarie nella misura in cui esse devono essere presenti e riscontrabili nell'uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio (si dice in gergo teologico che vengono "attribuite per appropriazione"). Così, anche nell'uomo l'amore deve procedere dalla sapienza e dalla potenza, cioè dalle capacità di cui egli dispone. Ma in Dio la potenza, la sapienza e l'amore sono presenti in egual misura, cioè infinitamente, in tutte le Persone. La stessa potenza presente nel Padre è presente nel Figlio e nello Spirito Santo, e così via.

Ma allora dov'è questa distinzione reale? Bisogna capire che la parola "persona" in Dio non significa la stessa cosa che significa nell'essere umano. Tra gli uomini, ogni individuo è una persona. In Dio invece no. Ogni Persona indica una relazione di Dio con Dio stesso.

Non dobbiamo immaginare la processione divina come tre fasi temporali diverse: il Figlio esiste dall'eternità insieme al Padre e non c'è stato mai un momento in cui il Padre era solo prima di generare il Figlio. Le Persone trinitarie, essendo un unico Dio, sono coeterne. Sono piuttosto da intendere come tre fasi logiche, per così dire. Due grandi eretici dei primi secoli - Ario e Sabellio - non riuscivano a concepire le relazioni trinitarie come interne a Dio stesso e perciò stravolsero il modo cattolico di concepire Dio.

La prima Persona è pertanto detta Padre, perché è la relazione di principio. Essa genera il Figlio, come quando l'intelletto genera un concetto: l'intelletto e il concetto sono una cosa sola, eppure visti da una certa prospettiva sono distinti. Non è un caso infatti che il Figlio è anche detto Verbo del Padre e verbum in latino o logos in greco significa proprio "concetto". Il Figlio di Dio, Gesù Cristo, è il modello del Creato.

Ma la conoscenza trova perfezione nella volontà. Conoscere il bene, infatti, spinge qualunque intelletto a volere quello stesso bene. Anche in Dio - che è puro intelletto - si realizza questa relazione di volontà. La terza relazione è detta quindi Spirito, perché l'amore è ciò che spinge come una mozione vitale verso qualcosa (e viene chiamato "spirito" ciò che anima un qualunque essere): Dio (Padre) conosce se stesso (Figlio) e ama se stesso (Spirito Santo).

Gaetano Masciullo

sabato 4 giugno 2022

Perché lo Spirito Santo è detto Paraclito?

Pentecost and the fires in our cities | Angelus News

Sequéntia S. Evangélii secundum Ioánnem 14, 23-31.
In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Si quis díligit me, sermónem meum servábit, et Pater meus díliget eum, et ad eum veniémus, et mansiónem apud eum faciémus: qui non díligit me, sermónes meos non servat. Et sermónem quem audístis, non est meus: sed eius, qui misit me, Patris. Haec locútus sum vobis, apud vos manens. Paráclitus autem Spíritus Sanctus, quem mittet Pater in nómine meo, ille vos docébit ómnia, et súggeret vobis ómnia, quaecúmque díxero vobis.
Pacem relínquo vobis, pacem meam do vobis: non quómodo mundus dat, ego do vobis. Non turbétur cor vestrum, neque formídet. Audístis quia ego dixi vobis: Vado, et vénio ad vos. Si diligerétis me, gauderétis útique, quia vado ad Patrem, quia Pater maior me est. Et nunc dixi
vobis priúsquam fiat: ut cum factum fúerit, credátis. Iam non multa loquar vobíscum. Venit enim prínceps mundi huius, et in me non habet quidquam. Sed ut cognóscat mundus, quia díligo Patrem, et sicut mandátum dedit mihi Pater, sic fácio.

Seguito del S. Vangelo secondo Giovanni 14, 23-31.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Chiunque mi ama osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà e verremo da lui e faremo dimora presso di lui. Chi non mi ama non osserva le mie parole. E la parola che avete udito non è mia, ma del Padre, di colui che mi ha mandato. Queste cose vi ho detto mentre vivevo con voi. Il Paraclito, poi, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel nome mio, insegnerà a voi ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto. Vi lascio la pace, vi dò la mia pace: ve la dò non come la dà il mondo. Non si turbi il vostro cuore, né si impaurisca. Avete udito che vi ho detto: vado e vengo a voi. Se voi mi amaste, vi rallegrereste certamente che io vado al Padre, perché il Padre è maggiore di me. Ve l’ho detto adesso, prima che succeda: affinché, quando ciò sia avvenuto, crediate. Non parlerò ancora molto con voi. Viene il principe di questo mondo ed egli non ha alcun potere su di me; ma bisogna che il mondo sappia che amo il Padre e agisco conformemente al mandato che il Padre mi ha dato.

La Pentecoste conclude il tempo di Pasqua. Essa è l'ultimo giorno utile per assolvere a uno dei cinque precetti generali della Chiesa, ossia quello di "confessarsi e comunicarsi almeno una volta all'anno, sotto pena di peccato grave".

Questa grande solennità è meglio compresa se analizziamo la sua origine nell'Antico Testamento. La Pentecoste, infatti, fu istituita dal popolo ebraico per commemorare la fine della mietitura del grano e prendeva nome di Shavuot, cioè "Festa delle settimane". Le settimane che ci sono tra Pasqua e Pentecoste sono appunto sette e quindi la Pentecoste segna la fine di una "settimana di settimane": indica così perfezione e compimento. Il popolo ebraico, ancora oggi, commemora in questo giorno la consegna della Legge a Mosè da parte di Dio sul Sinai.

Con la venuta di Nostro Signore, la Pentecoste ha assunto un significato più universale. Cinquanta giorni dopo la Resurrezione, lo Spirito Santo scese sugli apostoli e su Maria per confermarli nella Fede cattolica: nasceva così ufficialmente la Chiesa, chiamata a predicare ovunque il vangelo e a battezzare tutti gli uomini e tutte le donne di buona volontà.

Nel brano proclamato quest'oggi, Gesù chiama lo Spirito Santo con un titolo particolare: Paraclito. Questa parola greca è polisemantica - ha cioè diversi significati - e infatti solitamente non si traduce in italiano, per evitare di ridurre le mille sfumature della parola a una soltanto.

Il significato primario della parola Paraclito è quella di "avvocato" e, nella fattispecie, di "avvocato difensore". La Scrittura, in effetti, ci ricorda che presso Dio - il giudice eterno - esiste un accusatore, che è il diavolo. Questa immagine è presente sia nell'Antico Testamento (si pensi a Giobbe) sia nel Nuovo Testamento (si pensi all'Apocalisse). Satana rinfaccia all'uomo - che è l'imputato di questa "arringa" soprannaturale - i suoi peccati, perchè è invidioso della sua gloria.

Ma presso Dio gli uomini redenti hanno un paraclito, cioè un avvocato difensore. A ben vedere, la stessa parola viene attribuita non solo allo Spirito Santo, ma anche allo stesso Gesù Cristo. San Giovanni raccomanda nella sua lettera: "Figlioli miei, vi scrivo queste cose perché non pecchiate; ma se qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo il giusto" (1Gv 2,1). E la parola utilizzata dall'apostolo per indicare l'avvocato è proprio paraclito.

L'avvocato difensore è colui che giustifica l'imputato agli occhi del giudice. Così fa Cristo, che rende giusto l'uomo credente e battezzato agli occhi di Dio, e la giustificazione consiste nella rimozione della colpa e della pena del peccato originale ereditato dai progenitori tramite il Sacrificio della Croce.

Lo Spirito Santo è colui che "procede dal Padre e dal Figlio", come recitiamo nel Credo, e come tale Egli riceve dal Padre e dal Figlio la potestà di applicare nei Sacramenti i meriti redentivi di Cristo. Ecco perché Gesù chiama paraclito anche la Terza Persona della Trinità. Ma Egli è difensore anche perché genera in noi - a determinate e chiare condizioni - sette virtù soprannaturali, che possiamo utilizzare come armi contro il peccato e contro la potestà di tenebre che governa questo mondo.

Ma la parola paraclito significa anche consolatore. Lo Spirito Santo consola coloro che sono perseguitati in questo mondo a causa della verità e della giustizia con una letizia tutta interiore e spirituale, che i cittadini della "città terrena" (come direbbe sant'Agostino) non possono neanche lontanamente comprendere.

La parola "consolare" ha forse una radice comune con la parola "consigliare": non a caso il Consiglio è uno dei sette doni dello Spirito Santo. Colui che sa consolare chi soffre è qualcuno che sa cosa dire, è uno che sa quale direzione indicare per superare le difficoltà, ma è anche uno che sa quando è conveniente intervenire e come farlo. Molto spesso i tempi di Dio non sono i nostri tempi, proprio perché Dio è il Signore del tempo.

Gaetano Masciullo

L'Ascensione, festa della Speranza

Sequéntia S. Evangélii secundum Marcum 16, 14-20. In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit in...