sabato 23 settembre 2023

L'esame dei Farisei e l'esame di Gesù

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 22, 34-46

In illo témpore: Accessérunt ad Iesum pharisǽi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Iesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisǽis, interrogávit eos Iesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cuius fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius eius est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogáre.

Séguito +︎ del S. Vangelo secondo Matteo 22, 34-46

In quel tempo, i Farisei si avvicinarono a Gesù, e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: "Maestro, qual è il grande comandamento della legge?" Gesù gli disse: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. In questi due comandamenti è racchiusa tutta la Legge e i Profeti". Ed essendo i Farisei radunati insieme, Gesù domandò loro: "Che cosa vi pare del Cristo? Di chi è figlio?" Gli risposero: "Di Davide". Egli disse loro: "Com’è allora che Davide in spirito lo chiama Signore, dicendo: Dice il Signore al mio Signore, siedi alla mia destra, fino a che io non metta i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, com’è egli suo figlio?" E nessuno sapeva rispondergli; né da quel momento in poi vi fu chi ardisse interrogarlo.

Nella sequenza di vangelo proclamata in occasione della XVII Domenica dopo Pentecoste, assistiamo a due scene di esame. Nella prima scena, i farisei interrogano Gesù "per tentarlo", cioè per testare che la sua dottrina sia effettivamente conforme alla Rivelazione di Dio. Nella seconda scena, invece, il rapporto si inverte, ed è Gesù - una volta superato il primo esame - a interrogare ed esaminare i farisei, i quali però non riescono a superare la prova del Signore.

Andiamo con ordine. Nell'esame condotto dai farisei a Gesù, la domanda è di importanza capitale e riguarda il massimo comandamento, cioè il più importanti. La risposta di Gesù, che riprende quanto scritto nell'Antico Testamento, è puntuale, ma aggiunge qualcosa che funge da insegnamento per gli stessi farisei. Egli dice anzitutto che bisogna amare Dio "con tutto il cuore, con tutta l'anima e con tutta la mente". Questa tripartizione dell'uomo corrisponde, per utilizzare un termine a noi più prossimo, alla volontà, ai sentimenti e all'intelligenza. Queste tre parti dell'uomo sono la materia su cui si applicano le tre virtù teologali: la fede infatti si applica sull'intelligenza, la speranza sui sentimenti, e la carità sulla volontà; ma se san Paolo li nomina in ordine generativo (nel senso che la fede genera la speranza, e la fede spira insieme alla speranza la carità), il Signore li nomina implicitamente in ordine di importanza: anche san Paolo poi dirà che la virtù più importante è la carità.

Il Signore Gesù aggiunge che il comandamento immediatamente successivo "è simile" - si badi bene: non uguale - al primo: "ama il prossimo tuo come te stesso". In questa frase sono condensati tutti i precetti del Decalogo che sono rivolti a disciplinare il rapporto e il rispetto degli altri uomini: onorare i superiori, non uccidere, non fornicare, non rubare, non mentire, non invidiare. E tuttavia, il Signore dice che il prossimo va amato come se stessi, mentre Dio va amato con tutto se stessi. I due comandamenti più grandi sono simili, dunque, ma allo stesso tempo considerevolmente diversi nella misura. Oggi si tende ad anteporre la filantropia alla "filotea" (l'amore verso Dio), ma non è questa la direttiva evangelica.

L'esame che Gesù rivolge ai farisei è collegabile a quello che i farisei avevano rivolto a lui. Infatti, il Signore rivolge ai farisei una domanda molto particolare. Diremmo oggi: una domanda di esegesi - cioè di interpretazione - della Scrittura. 

Il riferimento di Gesù è al Salmo 109: "Oracolo del Signore al mio Signore: «Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi»". Se il Messia, cioè il Cristo, è figlio di Davide, cioè discendente di Davide, allora perché lo stesso Davide chiama il proprio figlio "Signore"? La cosa dovrebbe suscitare un doppio scandalo nella mentalità dei farisei. Primo, perché è il padre ad essere signore del figlio, non il contrario; secondo, perché quel preciso titolo di "Signore" (in ebraico: Adonai) si può dare solo a Dio. I farisei non sanno rispondere alle domande di Gesù e non superano l'esame. Ma il Signore voleva trasmettere un insegnamento ben preciso: il Cristo gode della figliolanza divina, gode della stessa natura divina del Padre.

Se questo è vero, quel comandamento che impone di amare Dio con tutto se stessi vale anche per l'amore verso Cristo. Non è un caso dunque che nello stesso vangelo secondo Matteo, troviamo in bocca a Gesù questa frase: "Chi ama il padre o la madre più di me non è degno di me; chi ama il figlio o la figlia più di me non è degno di me" (Mt 10, 37). Solo l'amore verso Dio può e deve superare l'amore verso le creature. In questo modo, dunque, Gesù afferma ancora una volta la propria natura divina, anche se in maniera velata e quasi segreta. Alcuni farisei forse bene compresero quello che Gesù sottintendeva, e anziché aprire gli occhi indurirono ancora di più il proprio cuore. Forse pensarono anche a queste parole di Gesù quando, mentre lo processavano per ucciderlo, lo accusarono di aver detto di essere Figlio di Dio.

Gaetano Masciullo

sabato 16 settembre 2023

Quando la Legge rigonfia l'anima


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 14, 1-11.

In illo témpore: Cum intráret Iesus in domum cuiúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Iesus dixit ad legisperítos et pharisǽos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cuius vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 14, 1-11.

In quel tempo, essendo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno dei principali farisei per prendere cibo, questi lo osservavano. Ed ecco che un idropico gli stava davanti. E Gesù prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: "È lecito o no risanare in giorno di sabato?". Ma quelli tacquero. Ed egli, toccatolo, lo risanò e lo rimandò. E disse loro: "Chi di voi, se gli è caduto un asino o un bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato?" E a tali cose non potevano replicargli. Osservando come i convitati scegliessero i primi posti, prese a dir loro questa parabola: "Quando sei invitato a nozze, non metterti al primo posto, perché potrebbe darsi che una persona più ragguardevole di te sia stata pure invitata, e allora quegli che ha invitato te e lui può venire a dirti: Cedigli il posto. E allora occuperai con vergogna l’ultimo posto. Ma quando sarai invitato, va a metterti all’ultimo posto, affinché, venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più avanti. Allora ne avrai onore presso tutti i convitati: perché chiunque si innalza, sarà umiliato, e chi si umilia, sarà innalzato".

Tutta la sequenza evangelica proclamata dalla Chiesa in occasione della XVI Domenica dopo Pentecoste ruota intorno al concetto della Legge. Non è un caso, infatti, che l'evangelista specifichi che questo episodio sia avvenuto di sabato, perché proprio il sabato era per gli antichi giudei il giorno della Legge, tanto da divenire nel linguaggio comune sinonimo di Legge. Si pensi ad esempio quando Gesù dice: "il sabato è per l'uomo" (Mc 2, 27), per dire che la Legge è per l'uomo. 

I Padri della Chiesa ci insegnano che tutti i miracoli corporei di cui i vangeli ci parlano vanno letti sotto una prospettiva mistica e spirituale. L'idropisia è una malattia che presenta un gonfiore nel volto e nel ventre a causa di liquidi che non vengono sfogati, e questo gonfiore causa nell'individuo una sete costante, che non può essere placata. A livello spirituale, dunque, l'idropico rappresenta l'uomo che non è rigonfio a causa dei desideri disordinati, che gli danno costantemente sete di piacere, senza però poterla mai soddisfare. 

In altre parole, potremmo dire che l'idropico spirituale è l'uomo represso, mentre la Legge che il Signore ha donato all'uomo - il Decalogo - serve a rendere l'uomo padrone di se stesso e dei propri desideri. Tutti i desideri umani e i piaceri terreni sono validi, buoni e proficui se vengono ordinati al sommo bene che è Dio. Quando non c'è quest'ordine, i desideri terreni creano gonfiore spirituale e sofferenza, proprio come avviene nell'idropico. Solo Gesù è capace di donare l'acqua spirituale che disseta, cioè la sua grazia: "Se tu conoscessi il dono di Dio e chi è colui che ti dice: "Dammi da bere!", tu stessa gliene avresti chiesto ed egli ti avrebbe dato acqua viva" (Gv 4, 10). 

I farisei - notiamo bene: questo episodio di guarigione avviene a casa di uno dei principi dei farisei - avevano negato alla Legge di Mosè il suo fine soprannaturale, cioè quello di guidare l'uomo alla perfezione della santità dall'interiorità dell'uomo, non dai suoi rapporti esterni e sociali. Il Signore Gesù è tornato spesso, durante il suo ministero terreno, su questo aspetto. Il capitolo 5 del vangelo secondo Matteo, per esempio, è tutto incentrato su questo insegnamento, la necessità cioè di vivere la Legge nel proprio cuore, ancor prima che in società: "Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti, non son venuto ad abolire, ma a completare. [...] Se la vostra giustizia non sarà maggiore di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete ascoltato come fu detto agli antichi: 'Non uccidere, e chiunque avrà ucciso sarà condannato in giudizio'; ma io vi dico: chiunque si adira col suo fratello sarà condannato in giudizio." (Mt 5, 17.20-22).

Oggi certune autorità nella Chiesa cattolica rischiano di assumersi un rischio e una colpa analoghi a quella dei farisei dell'epoca di Cristo. La dottrina sembra essere quasi ridotta del tutto a una dimensione di "giustizia sociale" (come si dice), dimenticando che il messaggio di Dio all'uomo è anzitutto un messaggio destinato al cuore della persona, a una guarigione che dall'interno dell'anima porta al cammino di perfezionamento che prende nome di santità. Non è possibile insegnare la bontà all'uomo imponendogli un modo di vivere comunitario, se prima non si trasmette una legge del cuore: "Non quello che entra nella bocca rende impuro l'uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l'uomo!" (Mt 15, 11).

La seconda parte di questa sequenza di vangelo, apparentemente distinta dall'episodio di guarigione, in realtà è intimamente unita a esso non solo per una questione di contesto (il tutto avviene a casa di un fariseo). Il Signore, tramite la parabola che qui ci espone, vuole indicarci il metodo con cui guarire dall'idropisia spirituale, ovviamente sostenuti dal suo tocco di grazia: la virtù dell'umiltà. Tutta la nostra vita è sotto l'osservazione attenta e amorosa della Provvidenza divina. Non temiamo dunque di rischiare di perdere valore dinanzi agli occhi del mondo se non ci sediamo ai primi posti per mostrare la nostra bravura e le nostre presunte eccellenze. Dio ci conosce meglio di quanto noi possiamo conoscere noi stessi. Umiltà significa anche, tra le altre cose, lasciare guidare la propria vita dalla volontà di Dio, che sa esaltare a tempo opportuno (cfr. 1Pt 5, 6).

Gaetano Masciullo

sabato 9 settembre 2023

La Chiesa, Madre di ogni buon cristiano


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 7, 11-16.
In illo témpore: Ibat Iesus in civitátem, quæ vocátur Naim: et ibant cum eo discípuli eius et turba copiósa. Cum autem appropinquáret portæ civitátis, ecce, defúnctus efferebátur fílius únicus matris suæ: et hæc vidua erat: et turba civitátis multa cum illa. Quam cum vidísset Dóminus, misericórdia motus super eam, dixit illi: Noli flere. Et accéssit et tétigit lóculum. - Hi autem, qui portábant, stetérunt. - Et ait: Adoléscens, tibi dico, surge. Et resédit, qui erat mórtuus, et cœpit loqui. Et dedit illum matri suæ. Accépit autem omnes timor: et magnificábant Deum, dicéntes: Quia Prophéta magnus surréxit in nobis: et quia Deus visitávit plebem suam.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 7, 11-16.
In quel tempo, Gesù andava verso una città chiamata Nain, seguito dai suoi discepoli e da gran folla. E giunse vicino alla porta della città mentre si portava a seppellire il figlio unico di una vedova, la quale era accompagnata da un gran numero di persone. Vedutala, il Signore, mosso a compassione di lei, le disse: "Non piangere". Si avvicinò alla bara e la toccò. - Quelli che la portavano si fermarono. - Egli disse: "Ragazzo, a te dico, alzati". Il morto si alzò a sedere, e cominciò a parlare, e Gesù lo rese a sua madre. Tutti furono presi da gran timore e glorificavano Dio, dicendo: "Un profeta grande è apparso tra noi, e Dio ha visitato il suo popolo".

La Chiesa oggi vuole farci meditare sull'importanza che essa stessa assume per la vita di noi credenti. Ogni cristiano degno di questo nome ha non solo dei genitori secondo la carne, ma anche dei genitori secondo lo spirito. Nostro Padre secondo lo spirito è infatti Dio, che ci ha rigenerati nel Cristo Figlio suo alla vita vera, vita di grazia e vita eterna; ma non dobbiamo dimenticare che abbiamo anche una Madre secondo lo spirito.

Questa Madre è proprio la Chiesa, che oggi ci viene presentata, nella sequenza di vangelo proclamata, nelle vesti di una donna vedova di Nain, che apre il corteo funebre del proprio unico figlio. Meditiamo dunque sulle caratteristiche di questa povera madre, afflitta dal più grande dolore che una donna può subire: la perdita di un figlio. Questa donna è anzitutto vedova. La Chiesa, all'epoca di Cristo, sussisteva nel popolo di Israele, depositario delle promesse antiche e dell'Alleanza con il Signore. Ma Israele aveva rinnegato quell'Alleanza a causa di precetti umani e dell'invidia cieca delle sue autorità. Questi vizi avevano reso Israele simile a una donna vedova: "È divenuta come una vedova, la grande fra le nazioni" (Lamentazioni 1, 1). Cristo allora va incontro a questa donna, e misticamente rappresenta Dio che va incontro alla sua Chiesa, come uno sposo va incontro alla propria sposa, compiendo così quella Parola che dice: "Non resterò vedova, non conoscerò la perdita dei figli" (Isaia 47, 8).

Notiamo poi che questa donna è anche madre, il cui figlio è però morto prematuramente, ed intorno a questa maternità violata ruota tutto l'episodio evangelico. Anche la Chiesa è una madre che assiste impotente alla morte dei suoi figli. Si noti bene che il figlio della vedova è detto unigenito, come unico è il genere umano, morto a causa del peccato prima della venuta di Gesù Cristo. Le cose più preziose sono spesso le cose uniche: il genere umano è creatura preziosa agli occhi di Dio. Il figlio è morto prematuramente, ancora adolescente: questo infatti è il termine che Gesù usa al momento della risurrezione: adoléscens, "adolescente". Nel linguaggio della Scrittura, l'età dell'adolescenza rappresenta misticamente la fase di coloro che, pur essendo stati iniziati alle verità di Fede, hanno ancora una volontà debole e falliscono nella perseveranza: "adolescenti, restate sudditi dei più anziani" (1Pietro 5, 5). I figli della Chiesa muoiono più facilmente - cioè perdono la grazia con il peccato - perché ancora non sanno come perseverare nella carità autentica. Si badi bene: fuori di metafora, l'adolescenza spirituale non è una questione anagrafica.

Cristo è venuto a redimere l'umanità tutta, non solo il popolo di Israele, ed è venuto a ricongiungersi con la sua comunità, che è la sua sposa, il suo Corpo mistico. Le genti che non conoscevano il Dio dell'Antica Alleanza sono figurate in questo episodio da tutte le persone che seguono questo corteo funebre, ormai divenuto un corteo, anzi una festa di vita. Tutte le genti ora sono chiamate a prendere parte alle nozze mistiche dell'Agnello con la sua Chiesa. 

Il punto finale, molto interessante, di questo brano evangelico ci mostra il ragazzo che, una volta risorto dalla morte, si siede sulla bara e inizia a parlare. Questo gesto non è casuale: si tratta dell'atteggiamento del maestro, che siede in cattedra e insegna la verità. Misticamente, questo gesto significa che ogni cristiano, redento dal sangue di Cristo, partecipa della sua stessa dimensione di Figlio, profeta e sovrano. Egli siede sulla bara, perché in Cristo ogni credente ha sconfitto la morte per sempre. "E Gesù lo rese a sua madre": solo nella Chiesa possiamo camminare e imparare a perseverare in questa valle di lacrime, avendo sempre fissa davanti agli occhi la mèta vera, che è l'eternità in Dio.

Gaetano Masciullo


sabato 2 settembre 2023

Imparare a scegliere tra Dio e Mammona


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 6, 24-33.

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Nemo potest duóbus dóminis servíre: aut enim unum ódio habébit, et álterum díliget: aut unum sustinébit, et álterum contémnet. Non potéstis Deo servíre et mammónæ. Ideo dico vobis, ne sollíciti sitis ánimæ vestræ, quid manducétis, neque córpori vestro, quid induámini. Nonne ánima plus est quam esca: et corpus plus quam vestiméntum? Respícite volatília cœli, quóniam non serunt neque metunt neque cóngregant in hórrea: et Pater vester cœléstis pascit illa. Nonne vos magis pluris estis illis? Quis autem vestrum cógitans potest adiícere ad statúram suam cúbitum unum? Et de vestiménto quid sollíciti estis? Consideráte lília agri, quómodo crescunt: non labórant neque nent. Dico autem vobis, quóniam nec Sálomon in omni glória sua coopértus est sicut unum ex istis. Si autem fænum agri, quod hódie est et cras in clíbanum míttitur, Deus sic vestit: quanto magis vos módicæ fídei? Nolíte ergo sollíciti esse, dicéntes: Quid manducábimus aut quid bibémus aut quo operiémur? Hæc enim ómnia gentes inquírunt. Scit enim Pater vester, quia his ómnibus indigétis. Quǽrite ergo primum regnum Dei et iustítiam eius: et hæc ómnia adiiciéntur vobis.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 6, 24-33.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Nessuno può servire due padroni: infatti, o avrà in odio l’uno e amerà l’altro, o si affezionerà all’uno e non farà caso all’altro. Non potete servire Dio e mammona. Perciò vi dico: non preoccupatevi di quello che mangerete, né di quello che vestirete: l’anima non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo, che non seminano né mietono, né accumulano nei granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete più di quelli? Chi di voi, angustiandosi, può allungare di un palmo la propria vita? E perché mai siete preoccupati per i vostri vestiti? Guardate come crescono i gigli del campo, eppure non lavorano né filano. Tuttavia, vi dico che neppure Salomone, nello splendore della sua gloria, fu mai vestito come uno di essi. Ora, se Dio veste così l’erba del prato, che oggi esiste e domani sarà gettata nel fuoco, quanto maggiormente voi, o uomini di poca fede? Non siate dunque preoccupati dicendo: cosa mangeremo o cosa berremo o di cosa ci vestiremo? Sono i gentili che cercano queste cose. Infatti, il Padre vostro sa che voi avete bisogno di tutto ciò. Cercate prima, dunque, il regno di Dio e la sua giustizia, e ogni altra cosa vi verrà data in aggiunta".

Il tema dalla liturgia della XIV Domenica dopo Pentecoste è la Provvidenza. Il Signore Gesù ci mette in guardia dall'attaccare il cuore ad un uso smodato dei beni materiali, ricordandoci così che essi sono soltanto mezzi per conseguire il vero bene della propria anima, ma anche di quello dei nostri prossimi, a cominciare dai nostri parenti, amici, fino alla società tutta. 

L'evangelista Matteo riporta le parole di Gesù secondo le quali dobbiamo scegliere se servire "Dio o mammona". La parola "mammona" è di origine aramaica e l'evangelista non la traduce in greco. Spesso molti sacerdoti, influenzati dai nefasti fumi del modernismo, attribuiscono a questa parola il significato di denaro o ricchezza. In questo senso, secondo tale esegesi, Gesù avrebbe detto: dovete scegliere tra Dio e la ricchezza. In realtà, "mammona" - che probabilmente, in origine, è un demone appartenente al pantheon delle divinità cananee - non fa riferimento al denaro, quanto al lusso. Stupisce vedere come persino nella traduzione della Bibbia CEI 2008 il termine "mammona" sia scomparso, e il curatore usi direttamente il termine "ricchezza".

In effetti, il denaro in se stesso non è né buono né cattivo. Come per tutti i mezzi, anche il valore morale del denaro dipende dall'uso, dal fine che se ne fa. Il lusso, invece, è sempre un uso smodato del denaro, finalizzato al godimento effimero delle cose temporali. Chi vive nel lusso e negli agi non necessariamente è un uomo ricco. E viceversa, un uomo ricco non necessariamente è sempre un uomo che vive nel lusso e nelle comodità. Il Signore ci invita pertanto a confidare nella Provvidenza, che è l'amorevole cura di Dio nei riguardi di ogni singola sua creatura. 

Bisogna però fare attenzione. Il Signore non ci sta invitando ad un'oziosa attesa. Il lavoro è un dovere dell'essere umano, certamente un castigo per la nostra condizione di peccatori (nel senso etimologico e più bello del termine: ciò che ci nobilita, ci rende puri), ma anche una responsabilità: attraverso le nostre opere rimodelliamo il Creato ferito dal peccato originale per renderlo utile e il più possibile simile all'idea originale. 

Il Signore, dunque, in questa pagina di vangelo, ci mette in guardia anche da un pericoloso vizio che viene spesso sottovalutato, ossia il vizio dell'avarizia. Nel linguaggio della Scrittura, l'avarizia non è - come viene intesa nel linguaggio comune - l'avversione a spendere e a donare. L'avarizia, detta anche cupidigia o avidità, è il desiderio di accumulare ricchezze per finalizzare a fini disordinati. San Paolo scrive che "l'avarizia è la radice di tutti i peccati" (1Timoteo 6, 10). San Tommaso d'Aquino, commentando questo versetto, fa una distinzione tra la madre e la radice dei peccati. La madre dei peccati non è l'avarizia, bensì la superbia, che in fin dei conti è il peccato originale che macchia l'anima di ciascuno di noi. La superbia genera tutti gli altri vizi capitali, così come una madre genera i propri figli. L'avarizia invece è chiamata radice perché nutre, reca alimento a tutti gli altri vizi e agli altri peccati. Molto banalmente, non è possibile godere dei beni materiali se non si ha la disponibilità economica per goderne.

Il messaggio che Gesù vuole darci quest'oggi invece è quello di risistemare la nostra scala dei valori, e mettere al primo posto la ricerca del "Regno di Dio e la sua giustizia", con la promessa che, se agiremo così, Dio provvederà ai nostri bisogni materiali, e lo farà in abbondanza. Dobbiamo allora capire cosa significa ricercare questo Regno e la sua giustizia. La risposta è tanto semplice quanto ardua da mettere in pratica. Significa non solo credere che il Cristo è il Signore dell'universo e delle nostre singole vite, che è l'unico e il solo salvatore per l'eternità, ma anche che è necessario rimanere nella sua grazia per essere considerati giusti dal Padre: "Perché non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati" (Romani 2, 13).

Gaetano Masciullo

L'Ascensione, festa della Speranza

Sequéntia S. Evangélii secundum Marcum 16, 14-20. In illo témpore: Recumbéntibus úndecim discípulis, appáruit illis Iesus: et exprobrávit in...