Il vangelo
proclamato dalla Chiesa nella IV Domenica dopo Pasqua, secondo il calendario
seguìto nella celebrazione in forma straordinaria del rito romano, è in diretta
continuazione con quanto proclamato domenica scorsa, ossia la promessa
dell’Ascensione. Riviviamo con gli apostoli i quaranta giorni che separano la
Resurrezione del Signore dalla sua salita al Padre. I vangeli non ci parlano,
se non sommariamente, di ciò che avvenne in quei giorni, ma la cosa non deve
sorprenderci. Sappiamo dalla Tradizione cattolica (che è depositum fidei tanto quanto la Scrittura) che è in questo tempo
che il Signore ha indicato agli apostoli, futuri primi vescovi della Chiesa
universale, le “linee guida” – per così dire – della celebrazione liturgica.
È questa la prima
dimensione sulla quale dobbiamo meditare in questo periodo pasquale che ci
separa dall’Ascensione: non a caso, anche nell’Ufficio Divino, la Chiesa
separa il tempo di Pasqua considerando questo spartiacque. Uno spunto utile di
meditazione può essere il seguente. La Bibbia – sia Antico sia Nuovo Testamento
– non fu scritta innanzitutto come resoconto storico o come testo di preghiera
personale: tutte concezioni che sono andate diffondendosi nell’età moderna,
dopo Lutero. La Bibbia nasce come testo liturgico, da proclamare nelle
assemblee. E questo risulta evidente, se pensiamo che, anche all’epoca di
Cristo, la maggioranza del popolo era analfabeta e non avrebbe potuto giovare
della lettura della Scrittura, se non ascoltandola dai presbiteri. Tra i
Dodici, probabilmente solo san Giovanni sapeva leggere e scrivere in maniera
fluente, in quanto giovane e promettente membro della casta sacerdotale
ebraica. Questo spiega anche perché i primi cristiani avvertirono solo
tardivamente l’esigenza di mettere per iscritto i vangeli, la cui stesura fu
concepita comunque per un fine declamatorio. Le lettere paoline, ad esempio,
cronologicamente sono più antiche dei vangeli ed erano lette nelle assemblee, prima
dello “spezzare del pane”, cioè prima della celebrazione eucaristica.
Un secondo spunto
di meditazione riguarda più da vicino il testo del Vangelo proclamato oggi. Quando
il Signore promette l’Ascensione agli Apostoli, questa promessa viene percepita
da loro come motivo di tristezza, anziché di gioia, tanto che Gesù appare
stupito: «Vado a Colui che mi ha mandato e nessuno di voi mi domanda: “Dove
vai?”. Anzi, perché vi ho detto queste cose, la tristezza ha riempito il vostro
cuore!» (Gv 16, 5b-6). In questo
modo, Gesù ci dice due cose. La prima è che dobbiamo sempre meditare,
interrogarci su tutto ciò che Egli ci riferisce nella Scrittura. La seconda è
che la lontananza corporea di Cristo non deve essere per noi motivo di
sofferenza, ma di gioia. Scrive san Tommaso d’Aquino: «Quantunque la presenza
corporale di Cristo fosse stata sottratta ai fedeli mediante l’Ascensione,
tuttavia è sempre accanto ai fedeli la presenza della sua divinità, secondo ciò
che egli stesso dice in Matteo [28,
20]: “Ecco: io sarò con voi tutti i giorni fino alla fine dei secoli”» (Cfr. S.Th. III, q. 57, a. 1, ad 3).
Gesù dunque spiega
il significato dell’Ascensione, nonostante il turbamento degli Apostoli. «È
necessario per voi – dice il Signore – che io me ne vada, perché, se non me ne
vado, non verrà a voi il Paraclito, ma, quando me ne sarò andato, io ve lo
manderò». Necessario per voi, cioè
conveniente, dove la convenienza è una necessità di tipo pedagogico: l’uomo
infatti ha bisogno di segni, percepibili dai sensi, per comprendere le verità
divine, non percepibili dai sensi. In altre parole: la vista e la conoscenza
dell’Ascensione serve a preparare le anime dei cristiani alla Pentecoste. Gli
apostoli non capirono immediatamente questa necessità e anche noi la capiremo
solo quando festeggeremo la Pentecoste.
Alla promessa
dell’Ascensione si associa quindi la promessa della Pentecoste. Lo Spirito
Santo discenderà per convincere il mondo «riguardo al peccato, riguardo alla
giustizia e riguardo al giudizio» (Gv 16,8).
L’affetto umano degli apostoli per Gesù è insufficiente, se non si trasforma in
carità, virtù che solo lo Spirito Santo può donare. E la carità si estrinseca
anzitutto nel convincere il mondo riguardo al peccato, «per il fatto che non
credono in me» (Gv 16, 9). Come
spiega san Tommaso d’Aquino: «Egli riprende solo il peccato di infedeltà,
perché tutti gli altri peccati sono rimossi attraverso la fede» (In Ioannem, l. 3). È necessario dunque
instillare negli uomini e nelle donne la fede cattolica per avviare in essi il
processo di santificazione. O in altre parole, non si può essere santi se non
da cristiani. In secondo luogo, questa carità divina si estrinseca nel
convincere il mondo riguardo alla giustizia, «per il fatto che io vado al Padre
e non mi vedrete più» (Gv 16, 10). Infatti,
è giusto che Colui che è incorruttibile in divinità, anima e corpo non sia in
questo mondo, che è luogo della corruttibilità, ma in Cielo, luogo
dell’incorruttibilità. In terzo e ultimo luogo, questa carità divina si
estrinseca nel convincere il mondo riguardo al giudizio, «per il fatto che il
principe di questo mondo è già condannato» (Gv
16, 11). Il principe di questo mondo, cioè Satana, è già stato sconfitto
dall’eternità. San Tommaso d’Aquino scrive che il Signore dice ciò «affinché
rimuova le scuse degli uomini, i quali si scusano dei peccati attraverso la
tentazione del diavolo; quasi a dire: questi uomini non possono essere scusati,
perché il diavolo è stato espulso dai cuori dei fedeli per la grazia, per la
fede in Cristo e per lo Spirito Santo, cosicché il diavolo non possa tentare
interiormente come [faceva] prima [del Battesimo], ma solo esteriormente con
un’attività permessa [da Dio]; e in questo modo possono resistere coloro che
vogliono aderire a Cristo» (Cfr. In
Ioannem l. 3).
Gaetano Masciullo
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