Il vangelo proclamato questa domenica 27 giugno 2021, secondo la forma liturgica straordinaria del rito romano, ci invita a riflettere su alcuni ostacoli che possono impedire l’esercizio della carità fraterna. Possiamo vedere che il brano evangelico odierno è suddivisibile in tre parti.
La prima parte ci parla della necessità di superare la giustizia dei farisei e degli scribi per essere salvi; la seconda parte ci parla dei tre gradi del peccato di iracondia; la terza parte ci parla della necessità della riconciliazione.
Queste tre parti sono naturalmente collegate da un filo rosso, che è la virtù della giustizia.
La giustizia, infatti, tra le quattro virtù cardinali (ricordiamo velocemente le altre tre: prudenza, fortezza, temperanza) è la "virtù sociale”, perché essa consiste nel dare a ciascuno ciò che gli spetta.
La giustizia dunque è quella virtù che orienta il bene nelle nostre relazioni: con Dio, il prossimo e il creato. Inoltre, la giustizia è quella virtù che va a lavorare sulla volontà degli individui.
Partiamo dunque dalla prima parte. Gesù dice: «Se la vostra giustizia non sarà stata più grande di quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel Regno dei Cieli». Bisogna capire a cosa vuol far riferimento il Signore quando parla di “giustizia degli scribi e dei farisei”.Gesù qui non sta dicendo che scribi e farisei sono totalmente estranei alla giustizia, ma solo che il loro modo di relazionarsi con essa è insufficiente e incompleto. La virtù della giustizia ha per noi cattolici un punto di riferimento molto chiaro: la cosiddetta legge naturale, che Dio ha reso manifesta nel decalogo sul Sinai (cioè con i dieci comandamenti).
L’Antico e il Nuovo Testamento si differenziano tra loro, tra le altre cose, anche per due prospettive diverse ma complementari della legge.
Infatti, l’Antico Testamento ci parla più della legge positiva della comunità, che spinge a rispettare la legge naturale tramite la minaccia delle pene, mentre il Nuovo Testamento ci parla della legge morale, che ci spinge a rispettare la legge naturale (e a perfezionarla nella grazia) tramite l’amore di Dio.
Le due prospettive sono complementari, altrimenti non saremmo più cattolici, bensì marcioniti, nel momento stesso in cui dovessimo ritenere superato ed eclissabile l’Antico Testamento.La giustizia degli scribi e dei farisei è dunque tutto quell’insieme di precetti e divieti che Mosè diede per conto di Dio nell’Antico Testamento. E tuttavia Gesù dice che l’osservanza di questi non garantisce la salvezza eterna, perché in effetti il primato risiede nell’individuo, più che nella comunità: il giudizio divino è per il singolo, non per le collettività.
Ecco il collegamento con la seconda parte del brano evangelico: «Avete sentito che è stato detto agli antichi: “Non uccidere”; chi infatti avrà ucciso sarà condannato in giudizio. Ma io vi dico che…».
La legge antica si limita all’ordine sociale, ma la legge nuova di Gesù va oltre, vuole educare i cuori umani secondo la volontà divina. La legge antica dissuade gli omicidi con la minaccia della pena capitale, ma non ne rimuove le cause, non rimuove ciò che spinge le persone a desiderare la morte altrui. La legge nuova invece va a ricercare proprio queste cause e la causa dell’omicidio è l’ira.
Per questa ragione, il Catechismo insegna che per violare il quinto comandamento – “Non uccidere” – non è necessario uccidere fisicamente il prossimo, ma basta aggredirlo fisicamente o anche solo verbalmente.
Gesù infatti dice che chi si adira con il prossimo sarà condannato a giudizio; chi chiama il prossimo raca (espressione siriaca di rabbia, che significa letteralmente “uomo da nulla”) sarà condannato nel Sinedrio; chi chiama il prossimo “pazzo” sarà condannato al fuoco della geenna.
Questi tre gradi descrivono l’ordine con il quale l’ira si sviluppa nel cuore dell’uomo.
In un primo momento, c’è il concepimento di qualcosa: «Chiunque si adira con il proprio fratello». Questa prima fase ancora non vede il confronto con il prossimo, ma è interna alla coscienza del soggetto: l’odio genera il rancore e l’iracondia. E Gesù dice che già in questa fase si è passabili di giudizio, cioè già l’odio viscerale e il desiderio di vendetta è peccato mortale, anche se di gravità minore rispetto agli altri due, perché il giudizio, nel linguaggio giuridico ebraico, è il grado minore di condanna, che prevedeva una difesa da parte dell’imputato.Nella seconda fase, c’è la manifestazione esterna dell’ira attraverso gesti ed esclamazioni. Anche in questa fase non c’è ancora il confronto diretto con il prossimo. La pena per questa fase, pur di per sé grave, è detta “del Sinedrio”.
Per alcune colpe, infatti, gli ebrei ricorrevano al Sinedrio, dove non era riconosciuto all’imputato il diritto di difesa, ma neanche la certezza della pena, in quanto i magistrati si riunivano per decidere se condannare o meno. Questo significa che la gravità delle manifestazioni di ira cambia molto da caso a caso e spetta al giudizio del confessore discernere sulla gravità dell’atto in questione.
Nella terza fase, c’è il confronto diretto con la persona odiata e Gesù condanna l’atto minimo che si può fare contro il fratello, per condannare evidentemente anche gli atti più grandi.
L’atto minimo è dunque l’offesa verbale: «Pazzo!»; l’atto massimo è chiaramente l’omicidio, il più grave dei peccati contro il prossimo. E la certezza della pena è resa chiara dall’espressione: «sarà condannato al fuoco della geenna».
Da qui dunque la necessità di riconciliarsi con il fratello prima di prendere parte al sacrificio dell’altare, riconciliazione che per noi cattolici assume una dimensione sacrale importante, di natura sacramentale, necessaria per prendere parte al sacrificio, cioè alla comunione eucaristica: anche per questo fondamento evangelico la dottrina perenne della Chiesa insegna che chi si comunica in stato di peccato, commette un peccato grave.
Gaetano Masciullo (blog)
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