giovedì 31 ottobre 2024

Le Beatitudini: merito e premio per la vita eterna

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 5, 1-12

In illo témpore: Videns Iesus turbas, ascéndit in montem, et cum sedísset, accessérunt ad eum discípuli eius, et apériens os suum, docébat eos, dicens: Beáti páuperes spíritu: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti mites: quóniam ipsi possidébunt terram. Beáti, qui lugent: quóniam ipsi consolabúntur. Beáti, qui esúriunt et sítiunt iustítiam: quóniam ipsi saturabúntur. Beáti misericórdes: quóniam ipsi misericórdiam consequántur. Beáti mundo corde: quóniam ipsi Deum vidébunt. Beáti pacífici: quóniam fílii Dei vocabúntur. Beáti, qui persecutiónem patiúntur propter iustítiam: quóniam ipsórum est regnum cœlórum. Beáti estis, cum maledíxerint vobis et persecúti vos fúerint, et díxerint omne malum advérsum vos, mentiéntes, propter me: gaudete et exsultáte, quóniam merces vestra copiósa est in cœlis.

Séguito del S. Vangelo secondo Matteo 5, 1-12

In quel tempo, Gesù, vedendo le folle, salì sulla montagna. Sedutosi, ed avvicinatisi a Lui i suoi discepoli, così prese ad ammaestrarli: "Beati i poveri in spirito, perché di questi è il regno dei cieli. Beati i miti, perché possederanno la terra. Beati quelli che piangono, perché saranno consolati. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché conseguiranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati coloro che soffriranno persecuzioni per amore della giustizia, perché di questi è il regno dei cieli. Beati siete voi, quando vi malediranno, vi perseguiteranno, e, mentendo, diranno ogni male contro di voi per causa mia: rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli".

In questa Solennità di Ognissanti, la Chiesa ci propone il Vangelo delle Beatitudini, che ci mostra il cammino della santità e il premio eterno promesso. I santi sono coloro che, al termine della loro vita terrena, muoiono in stato di grazia. La Tradizione della Chiesa ci insegna che per entrare in Paradiso è necessario un distacco completo da ogni peccato, persino da quelli veniali. Ogni mancanza, infatti, rappresenta un ostacolo all’incontro pieno con Dio. 

Coloro che muoiono con peccati veniali o necessitano di riparazione per le conseguenze dei peccati passati, richiedono una purificazione nel Purgatorio. Proprio per tale motivo, di costoro la Chiesa fa commemorazione e prega in suffragio, specialmente il giorno seguente a Ognissanti. Per inciso: giova ricordare che la Chiesa ci offre la possibilità di lucrare l’indulgenza plenaria per i defunti o per noi stessi, alle consuete condizioni. 

Al contrario, chi rifiuta consapevolmente e liberamente Dio, con un peccato mortale non debitamente confessato, si priva della vita eterna e si espone alla dannazione. Questa è la nostra fede cattolica!

Questa visione del peccato e della grazia può sembrare eccessivamente rigida, ma dobbiamo ricordare che la giustizia di Dio è perfetta e senza parzialità. A chi trova ingiusto che un peccato possa portare alla dannazione eterna, possiamo rispondere che, se è ingiusto condannare per l’eternità una colpa temporanea, dovrebbe sembrare altrettanto ingiusto concedere il Paradiso eterno per una singola azione buona compiuta in un attimo. In verità, il giudizio divino risponde a criteri di giustizia e amore che trascendono la nostra logica umana: Dio offre a ogni anima il suo destino eterno in base alla disposizione del cuore.

Ma chi sono i santi? Sono coloro che hanno vissuto in stato di grazia, mantenendo la propria anima sempre pronta a incontrare Dio. Alcuni di loro si sono distinti per aver vissuto in modo eroico le virtù cristiane, lasciando che lo Spirito Santo abitasse in loro. Essi sono diventati un riflesso vivo di Cristo, poiché hanno corrisposto pienamente ai doni dello Spirito Santo ricevuti in germe nel Battesimo e poi soprattutto nella Cresima. Questa vita eroica, illuminata dalla grazia, è il culmine e l’ambizione di ogni credente: il desiderio di essere trasformati dalla presenza divina e di rispondere docilmente alle sue ispirazioni.

Il Vangelo delle Beatitudini, sul quale oggi meditiamo, ci offre una guida per comprendere i frutti dei doni dello Spirito Santo nella vita dei santi. Le beatitudini non sono soltanto un elenco di virtù o di comportamenti, ma rappresentano il merito e la ricompensa per chi vive animato dal Santo Spirito. I poveri in spirito, gli afflitti, i miti, coloro che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, gli operatori di pace e i perseguitati per la giustizia sono tutte immagini dei santi. Ogni beatitudine corrisponde a una virtù vissuta alla luce dei sette doni dello Spirito Santo: sapienza, intelletto, consiglio, fortezza, scienza, pietà e timore di Dio. 

Essere poveri in spirito è il frutto della sapienza divina; i miti sono sostenuti dal dono dell'intelletto; gli afflitti ricevono consolazione dal dono del consiglio; chi ha fame e sete di giustizia è animato dalla fortezza; i misericordiosi si muovono per il dono della scienza; i puri di cuore vivono del dono della pietà; infine, gli operatori di pace sono sostenuti dal timore di Dio.

Le beatitudini, allora, non sono solo promesse future, ma realtà presenti nei cuori dei santi, che già su questa terra vivono una gioia e una pace che prefigurano il Paradiso. Oggi, nella Solennità di Ognissanti, siamo invitati a guardare a questi esempi, desiderando come loro di lasciarci trasformare dallo Spirito Santo, affinché, anche noi, possiamo un giorno condividere la loro gloria eterna.

Gaetano Masciullo

sabato 26 ottobre 2024

La Regalità di Cristo

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Ioánnem 18, 33-37.

In illo témpore: Dixit Pilátus ad Iesum: Tu es Rex Iudæórum? Respóndit Iesus: A temetípso hoc dicis, an álii dixérunt tibi de me? Respóndit Pilátus: Numquid ego Iudǽus sum? Gens tua et pontífices tradidérunt te mihi: quid fecísti? Respóndit Iesus: Regnum meum non est de hoc mundo. Si ex hoc mundo esset regnum meum, minístri mei útique decertárent, ut non tráderer Iudǽis: nunc autem regnum meum non est hinc. Dixit ítaque ei Pilátus: Ergo Rex es tu? Respóndit Iesus: Tu dicis, quia Rex sum ego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimónium perhíbeam veritáti: omnis, qui est ex veritáte, audit vocem meam.

Séguito del S. Vangelo secondo Giovanni 18, 33-37.

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: "Sei tu il Re dei Giudei?" Gesù gli rispose: "Lo dici da te, o altri te l’hanno detto di me?" Rispose Pilato: "Sono forse io Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno messo nelle mie mani. Che cosa hai fatto?" Rispose Gesù: "Il mio regno non è di questo mondo. Se fosse di questo mondo, i miei ministri certo si adopererebbero perché non fossi dato in potere dei Giudei: dunque il mio regno non è di quaggiù". Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei Re?" Rispose Gesù: "Tu lo dici, io sono re. Per questo sono nato e per questo sono venuto al mondo, per rendere testimonianza alla verità. Chiunque sta dalla parte della verità, ascolta la mia voce".

Questo brano, tratto dal vangelo secondo Giovanni e proclamato in occasione della Solennità di Cristo Re dell'Universo, nella liturgia in forma straordinaria del Rito Romano, è centrale per comprendere il significato profondo della regalità di Cristo. Questa festa, istituita da Papa Pio XI nel 1925 con l'enciclica Quas Primas, rispondeva alla crescente secolarizzazione e all'ascesa dei totalitarismi, che minacciavano il primato dell'autorità di Dio sulla vita dell'uomo, intesa individualmente e socialmente. Papa Pio XI, in un’epoca di gravi crisi morali e sociali, volle riaffermare il primato di Cristo come sovrano non solo della Chiesa, ma dell’universo, ricordando a tutti i popoli che la vera pace e la giustizia non possono esistere senza il riconoscimento della signoria di Cristo.

Nel dialogo tra Gesù e Pilato, vediamo rivelata in maniera paradossale la natura regale di Gesù. Pilato domanda se Gesù sia "il re dei Giudei", e la risposta di Cristo supera ogni aspettativa umana: “Il mio regno non è di questo mondo”. Qui Gesù non rinnega la sua regalità, ma la definisce, in modo che il governatore romano, e anche i suoi accusatori, non comprendono pienamente. Il regno di Cristo non è terreno non nel senso che non si estenda a questo mondo, ma nel senso che non ha origine da questo mondo: è un regno celeste e universale, trascende le nazioni e gli imperi, non si fonda sulla forza militare o sulle ricchezze, ma sulla verità e sull'amore divino. La sua regalità non è limitata ai confini di Israele o del mondo fisico, ma abbraccia l'intera umanità e la creazione.

Gesù è Re perché Egli è la Verità (cf. Gv 14,6), e nella Verità risiede il fondamento di ogni giustizia. Cristo dichiara: “Io sono nato per questo, e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità”. La regalità di Cristo è inseparabile dalla sua missione di testimone della Verità: egli è venuto a rivelare la verità su Dio e sull'uomo. Senza verità non vi è giustizia, e un re, nella concezione autentica, è colui che difende la verità per il bene del suo popolo e, per tale ragione, bene amministra la giustizia. Cristo, essendo il Figlio di Dio e l'incarnazione stessa della Verità, è il Re perfetto, che governa non con la coercizione, ma con la giustizia che scaturisce dall'amore divino.

La gloria regale di Gesù si manifesta anche nel suo essere vero Dio. Egli, pur essendo uomo, è Dio, e con le sue opere e parole mostra la potenza e la sapienza della Santissima Trinità. Come Re, egli porta gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, rendendo visibile nella storia umana l'infinita maestà di Dio. La sua regalità non è solo una questione di potere, ma di rivelazione della verità divina e della comunione con Dio.

Cristo Re non è solamente il sovrano dei cristiani, ma anche di coloro che non lo conoscono, e persino dei suoi nemici. Il suo regno non è circoscritto ai confini visibili della Chiesa cattolica, ma si estende a tutti gli uomini e a tutte le creature. Gesù è Re di tutti, anche di coloro che si dichiarano suoi avversari, perché tutto ciò che esiste è stato creato per mezzo di Lui e per Lui (cf. Col 1,16). Anche coloro che ancora non lo riconoscono sono chiamati a far parte del suo regno, e la Chiesa, in questa solennità, rinnova il suo compito missionario di annunciare la signoria universale di Cristo.

Oggi, durante la solennità di Cristo, Re dell'Universo, la Chiesa ci invita a riconoscere (o a ricordare) che ogni autorità terrena è giusta solo se subordinata alla sovranità divina. Non c’è vera pace senza giustizia, e non c’è giustizia senza verità: in Cristo, Verità incarnata, troviamo il Re che guida l'umanità verso la giustizia perfetta e la carità autentica.

Gaetano Masciullo

sabato 19 ottobre 2024

Cosa è di Cesare? Cosa è di Dio?

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 22, 15-21.
In illo témpore: Abeúntes pharisaéis, consílium iniérunt ut cáperent Iesum in sermóne. Et mittunt ei discípulos suos cum Herodiánis, dicéntes: Magister, scimus quia verax es, et viam Dei in veritáte doces, et non est tibi cura de áliquo; non enim réspicis persónam hóminum: dic ergo nobis quid tibi vidétur, licet censum dare Caésari, an non? Cógnita autem Iesus nequítia eorum, ait: Quid me tentátis, hypócritae? Osténdite mihi numísma census. At illi obtulérunt ei denarium. Et ait illis Iesus: Cuius est imágo haec, et superscríptio? Dicunt ei: Caésaris. Tunc ait illis: Réddite ergo quae sunt Caésaris, Caésari; et quae sunt Dei, Deo.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 22, 15-21.
In quel tempo, radunatisi, i farisei tennero consiglio per sorprendere Gesù nel suo parlare. Gli mandarono i loro discepoli con gli erodiani a dirgli: "Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo la verità, e non hai riguardo per alcuno, poiché non guardi alla persona degli uomini: dicci il tuo parere: è lecito o no pagare il tributo a Cesare?" Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: "Ipocriti, perché mi tentate? Mostratemi la moneta del tributo". Ed essi gli presentarono un denaro. E Gesù disse loro: "Di chi è questa immagine e questa iscrizione?" Gli risposero: "Di Cesare". Ed allora Gesù: "Rendete dunque a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio".

Nella XXII Domenica dopo Pentecoste, il Vangelo di Matteo ci presenta un episodio cruciale nel ministero di Gesù, in cui viene messo alla prova dai farisei e dagli erodiani riguardo al pagamento delle tasse a Cesare. Questo brano, sebbene sia spesso interpretato in chiave superficiale come un semplice invito al rispetto delle leggi civili, racchiude un significato più profondo e spirituale che merita una riflessione attenta.

I farisei e gli erodiani, uniti in una cospirazione contro Gesù, gli pongono una domanda insidiosa: “È lecito o no pagare il tributo a Cesare?”. In questo modo, cercano di intrappolarlo in una contraddizione: se risponde affermativamente, potrebbe alienare i propri seguaci e apparire come un sostenitore dell'occupazione romana; se risponde negativamente, potrebbe essere denunciato come un ribelle. Tuttavia, Gesù, nella sua infinita saggezza, risponde: “Date a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio”.

Questa risposta, pur sembrando inizialmente ambigua, invita a una riflessione profonda. Il primo aspetto da sottolineare è che "dare a Cesare ciò che è di Cesare" non deve essere ridotto alla semplice questione del pagamento delle tasse, come erroneamente sostenuto da molti esegeti, antichi e contemporanei. Infatti, Cesare non ha alcun diritto su ciò che realmente appartiene a Dio. La vera essenza del messaggio di Cristo è che nulla è di Cesare, poiché tutto è di Dio. Ogni creatura, ogni bene, ogni vita appartiene e proviene dal Creatore.

In un contesto storico in cui Cesare stesso si ergeva a divinità, il richiamo di Gesù alla distinzione tra ciò che è umano e ciò che è divino assume un significato profondamente provocatorio. Il potere romano, che si arrogava il diritto di controllo su tutto, era in realtà un’illusione, perché la vera autorità è solo quella di Dio. In questo senso, la risposta di Gesù è una rivelazione: non esiste un’autonomia del potere civile che possa esimere l’uomo dal riconoscere la propria dipendenza e responsabilità verso Dio.

Inoltre, la risposta di Gesù gioca sulla restrizione mentale dei farisei e degli scribi. Questi, che dovrebbero avere una conoscenza approfondita della Legge e dei Profeti, si trovano incapaci di cogliere il significato più profondo delle parole di Cristo. La loro visione è limitata: essi non riescono a vedere oltre il proprio interesse politico e religioso. La richiesta di Gesù di “dare a Dio ciò che è di Dio” li invita a una riflessione sull’obbligo di riconoscere la sovranità divina su ogni aspetto della loro vita. Ciò implica non solo il riconoscimento della giurisdizione divina, ma anche una chiamata alla conversione e alla vera adorazione, in cui ogni gesto e ogni atto umano si pongano sotto l’autorità di Dio.

Questo brano, quindi, ci interpella direttamente. Viviamo in un’epoca in cui si tende a separare la fede dalla vita quotidiana, come se le questioni religiose dovessero rimanere estranee alle dinamiche del mondo. Ma le parole di Gesù ci ricordano che la nostra esistenza intera, ogni nostro atto e decisione, deve essere orientata verso Dio. La vera libertà e la vera dignità dell’uomo si trovano nel riconoscere il proprio posto nel piano divino, vivendo in sintonia con la Legge di Dio.

Mentre ci apprestiamo a vivere la nostra vita quotidiana, siamo chiamati a riflettere su come dare a Dio ciò che gli spetta, superando ogni forma di idolatria e di assoggettamento a poteri che vogliono farci dimenticare la nostra origine di figli di Dio. Dobbiamo riscoprire e affermare che, in ogni ambito della nostra vita, siamo chiamati a servire e onorare Dio, riconoscendo che il nostro vero Re e Signore è solo Lui. In tal modo, siamo già orientati (anche liturgicamente) alla solennità di Cristo Re dell'Universo.

Gaetano Masciullo

sabato 12 ottobre 2024

Il Peccato, le Conseguenze e il Perdono


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 18, 23-35

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis parábolam hanc: Assimilátum est regnum cœlórum hómini regi, qui vóluit ratiónem pónere cum servis suis. Et cum cœpísset ratiónem pónere, oblátus est ei unus, qui debébat ei decem mília talénta. Cum autem non habéret, unde rédderet, iussit eum dóminus eius venúmdari et uxórem eius et fílios et ómnia, quæ habébat, et reddi. Prócidens autem servus ille, orábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Misértus autem dóminus servi illíus, dimísit eum et débitum dimísit ei. Egréssus autem servus ille, invénit unum de consérvis suis, qui debébat ei centum denários: et tenens suffocábat eum, dicens: Redde, quod debes. Et prócidens consérvus eius, rogábat eum, dicens: Patiéntiam habe in me, et ómnia reddam tibi. Ille autem nóluit: sed ábiit, et misit eum in cárcerem, donec rédderet débitum. Vidéntes autem consérvi eius, quæ fiébant, contristáti sunt valde: et venérunt et narravérunt dómino suo ómnia, quæ facta fúerant. Tunc vocávit illum dóminus suus: et ait illi: Serve nequam, omne débitum dimísi tibi, quóniam rogásti me: nonne ergo opórtuit et te miseréri consérvi tui, sicut et ego tui misértus sum? Et irátus dóminus eius, trádidit eum tortóribus, quoadúsque rédderet univérsum débitum. Sic et Pater meus cœléstis fáciet vobis, si non remiséritis unusquísque fratri suo de córdibus vestris.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 18, 23-35

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: "Il regno dei cieli è simile a un re che volle fare i conti con i suoi servi. E avendo iniziato a fare i conti, gli fu presentato uno che gli era debitore di diecimila talenti. Ma non avendo costui modo di pagare, il padrone comandò che fosse venduto lui, sua moglie, i figli e quanto aveva, e così fosse saldato il debito. Il servo, però, gettatosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Mosso a pietà, il padrone lo liberò, condonandogli il debito. Ma il servo, partito da lì, trovò uno dei suoi compagni che gli doveva cento denari: e, presolo per la gola, lo strozzava dicendo: Pagami quello che devi. E il compagno, prostratosi ai suoi piedi, lo supplicava: Abbi pazienza con me, e ti renderò tutto. Ma quegli non volle, e lo fece mettere in prigione fino a quanto lo avesse soddisfatto. Ora, avendo gli altri compagni veduto tal fatto, se ne attristarono grandemente e andarono a riferire al padrone tutto quello che era avvenuto. Questi allora lo chiamò a sé e gli disse: Servo iniquo, io ti ho condonato tutto quel debito, perché mi hai pregato: non dovevi dunque anche tu aver pietà di un tuo compagno, come io ho avuto pietà di te? E sdegnato, il padrone lo diede in mano ai carnefici fino a quando non avesse pagato tutto il debito. Lo stesso farà con voi il Padre mio celeste, se ognuno di voi non perdona di cuore al proprio fratello".

Il brano di Matteo 18, 23-35 ci offre una profonda riflessione circa il peccato, le conseguenze delle nostre azioni, e il perdono. La parabola del re che condona un debito incolmabile, ma punisce il suo servo per la mancanza di misericordia verso un debitore di minor valore, ci mette di fronte a una verità scomoda ma necessaria: il perdono ricevuto deve essere trasmesso. In un tempo in cui si tende a minimizzare il peccato, il messaggio di Gesù emerge come una forte chiamata alla responsabilità e alla giustizia.

Il re che decide di fare i conti con i suoi servi non rappresenta un Dio freddo e distante, ma un Padre giusto e misericordioso, il quale desidera che i suoi figli comprendano la gravità delle proprie azioni e che si convertano. L'immagine del re che si accinge a regolare i conti è emblematica: non possiamo pensare a Dio come a un'autorità che ignora o minimizza il male, ma come a colui che si prende cura della propria creazione e desidera che ognuno si assuma la responsabilità delle proprie scelte, per divenire davvero perfetti e liberi come egli è. Ogni peccato porta con sè precise conseguenze, non solo per chi lo commette, ma anche per coloro che vi sono intorno. Ogni nostro atto, dunque, ha un impatto e ciò vale tanto per le azioni buone quanto per quelle cattive.

Quando il servo, oppresso da un debito impossibile da ripagare, implora misericordia, ottiene il perdono del re. Questo gesto di grazia è un riflesso della misericordia divina: Dio, in Cristo, offre a ciascuno di noi una seconda possibilità, una via di uscita dal baratro del peccato. Ricordiamo che tale perdono viene amministrato in maniera sublime attraverso quelli che la Chiesa definisce "sacramenti dei morti", cioé il Battesimo e la Confessione, quei sacramenti cioé che donano al credente la prima grazia. Ma la parabola non finisce qui. Il servo perdonato, quasi avesse una memoria corta, certamente con cuore indurito e ingrato, si dimostra incapace di estendere lo stesso perdono al proprio amico. Qui risiede il nodo centrale della questione: ricevere il perdono di Dio implica un cambiamento profondo nel nostro modo di relazionarci con gli altri. Per questo motivo, all'interno del Padre nostro, modello di ogni preghiera, Gesù ci insegna a dire: "Rimetti a noi i nostri debiti, come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori". Secondo l'insegnamento tradizionale dei Padri della Chiesa, questa richiesta del Padre nostro corrisponde al dono del Consiglio: attraverso il perdono dei falli altrui fatti a nostro danno, otterremo misericordia da Dio.

Il debito di cento denari, che il servo non è disposto a perdonare, ci fa riflettere su quanto spesso siamo intransigenti verso i peccati altrui, mentre tendiamo a minimizzare le nostre colpe. È facile, e quasi automatico, mettere in evidenza le mancanze altrui, dimenticando le innumerevoli volte in cui abbiamo sperimentato la grazia di Dio: "Perché guardi la pagliuzza nell'occhio del tuo fratello e ignori la trave che è nel tuo occhio?". Questa disparità di trattamento è ciò che Gesù condanna con forza. Egli ci invita a riflettere sulla nostra attitudine verso il perdono: siamo disposti a perdonare come siamo stati perdonati?

In un'epoca in cui il concetto di giustizia è spesso confuso con quello di vendetta o risentimento, la parabola esposta da san Matteo ci riporta al cuore della questione. La misericordia di Dio è illimitata, ma non per questo priva di condizioni. Non possiamo dimenticare che il perdono divino è stato concesso a caro prezzo, cioé con l'effusione del sangue sulla croce. Esso è anche un invito a vivere in una nuova dimensione, a diventare canali di misericordia verso i nostri fratelli.

La parte finale della parabola, in cui il servo viene "consegnato ai carnefici" per non aver perdonato, rivela che ci sono conseguenze gravi per chi sceglie di non esercitare la misericordia. Questo non deve essere interpretato come una minaccia, ma come un avvertimento: la chiusura del cuore al perdono ci allontana dalla vita vera, quella che Dio desidera per noi. Vivere nel risentimento e nella mancanza di perdono ci conduce a una vita di prigionia spirituale in questa vita, ma anche nell'altra. La realtà dell'inferno, cioé della dannazione eterna, non può essere sminuita né messa sotto silenzio.

Dobbiamo allora corrispondere all'amore e alla misericordia di Dio vivendo secondo il principio indicatoci dal Signore Gesù: "Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia" (Matteo 5, 7). Quindi, mentre contempliamo la parabola, chiediamoci: stiamo vivendo questa beatitudine? Siamo pronti a perdonare come siamo stati perdonati? La nostra risposta a queste domande determinerà in maniera radicale la nostra vita spirituale e la nostra relazione con Dio e con il prossimo.

Gaetano Masciullo

sabato 5 ottobre 2024

La devozione fondamentale del Rosario


Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 1, 26-38

In illo témpore: Missus est Angelus Gábriel a Deo in civitátem Galilææ, cui nomen Názareth, ad Vírginem desponsátam viro, cui nomen erat Ioseph, de domo David, et nomen Vírginis María. Et ingréssus Angelus ad eam, dixit: Ave, grátia plena; Dóminus tecum: benedícta tu in muliéribus. Quæ cum audísset, turbáta est in sermóne eius: et cogitábat, qualis esset ista salutátio. Et ait Angelus ei: Ne tímeas, María, invenísti enim grátiam apud Deum: ecce, concípies in útero et páries fílium, et vocábis nomen eius Iesum. Hic erit magnus, et Fílius Altíssimi vocábitur, et dabit illi Dóminus Deus sedem David, patris eius: et regnábit in domo Iacob in ætérnum, et regni eius non erit finis. Dixit autem María ad Angelum: Quómodo fiet istud, quóniam virum non cognósco? Et respóndens Angelus, dixit ei: Spíritus Sanctus supervéniet in te, et virtus Altíssimi obumbrábit tibi. Ideóque et quod nascétur ex te Sanctum, vocábitur Fílius Dei. Et ecce, Elisabeth, cognáta tua, et ipsa concépit fílium in senectúte sua: et hic mensis sextus est illi, quæ vocátur stérilis: quia non erit impossíbile apud Deum omne verbum. Dixit autem María: Ecce ancílla Dómini, fiat mihi secúndum verbum tuum.

Seguito del Santo Vangelo secondo Luca 1, 26-38

In quel tempo, l'angelo Gabriele fu inviato da Dio in una città della Galilea, di nome Nazareth, ad una vergine sposa di un uomo di nome Giuseppe, della stirpe di Davide; e il nome della vergine era Maria. L'angelo, entrando da lei, disse: "Ave, piena di grazia; il Signore è con te; tu sei benedetta fra le donne". Mentre l'udiva, ella fu turbata alle sue parole, e si domandava cosa significasse quel saluto. E l'angelo le disse: "Non temere, Maria, poiché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai nel tuo seno e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Egli sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre: e regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà fine". Allora Maria disse all'angelo: "Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?" L'angelo le rispose, dicendo: "Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell' Altissimo ti coprirà della sua ombra. Per questo il Santo, che nascerà da te, sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anch'essa un figlio nella sua vecchiaia ed è già al sesto mese, lei che era detta sterile: poiché niente è impossibile a Dio". Allora Maria disse: "Ecco la serva del Signore: sia fatto a me secondo la tua parola".

L’evento straordinario dell'Annunciazione dell’angelo a Maria segna l'inizio del mistero della nostra salvezza: Dio si fa uomo nel grembo della Vergine Maria. In questo autentico mistero di gioia vediamo il santo angelo Gabriele portare l’annuncio divino a Maria, proclamandola "piena di grazia" ed eletta dal Padre per divenire la Madre del Salvatore. La risposta di Maria - "Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola" - è un atto di fede perfetto. Maria non comprende pienamente il mistero che si sta compiendo, ma si affida totalmente alla volontà di Dio. La sua umiltà, la sua disponibilità e la sua obbedienza sono per noi un modello incomparabile.

Questa scena, contemplata con attenzione, è strettamente legata alla devozione del Santo Rosario. Il Rosario è una preghiera profondamente mariana, ma al contempo cristocentrica. Attraverso i misteri del Rosario, ripercorriamo la vita di Gesù Cristo, ponendo Maria come guida e intercessore. L'Annunciazione è non a caso il primo dei misteri gaudiosi e quindi il primo di tutti i misteri contemplati nel Rosario, e ci invita a meditare proprio sul grande mistero dell’Incarnazione.

Recitare il Rosario ci permette di immergerci nella vita di Gesù e Maria e ci mostra come il piano di salvezza si sia realizzato da parte di Dio con l’adesione necessaria e irremovibile di Maria Santissima al volere divino. Con ogni Ave Maria, noi ci uniamo a quel saluto dell’angelo: "Ave, piena di grazia, il Signore è con te". Ripetendo queste parole, esprimiamo la nostra devozione e riconosciamo il ruolo unico di Maria nel mistero della Redenzione.

Il Rosario ci insegna anche l’importanza dell'autentica meditazione cristiana. Non si tratta solo di una ripetizione di parole, ma di una continua immersione nei misteri della nostra fede. Come Maria ha meditato tutte queste cose nel suo cuore, così noi, attraverso il Rosario, siamo chiamati a contemplare le verità della fede e ad applicarle nella nostra vita quotidiana.

Inoltre, il Rosario è una potente arma spirituale. Come Maria, che ha schiacciato il capo del serpente con la sua obbedienza a Dio, così anche noi, attraverso questa preghiera, possiamo ottenere grazie e protezione contro le tentazioni e le difficoltà della vita. San Pio da Pietrelcina diceva: "Il Rosario è l’arma per questi tempi". Pregando il Rosario, invochiamo la Madre di Dio perché interceda per noi, affinché possiamo vivere in conformità alla volontà divina.

Gaetano Masciullo

La poca fede degli israeliti contro la grande fede dei pagani?

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum 8, 1-13. In illo témpore: Cum descendísset Iesus de monte, secútae sunt eum turbae multae: et ecce...