sabato 27 luglio 2024

La Parabola dell'Umiltà

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 18, 9-14

In illo témpore: Dixit Iesus ad quosdam, qui in se confidébant tamquam iusti et aspernabántur céteros, parábolam istam: Duo hómines ascendérunt in templum, ut orárent: unus pharisǽus, et alter publicánus. Pharisǽus stans, hæc apud se orábat: Deus, grátias ago tibi, quia non sum sicut céteri hóminum: raptóres, iniústi, adúlteri: velut étiam hic publicánus. Ieiúno bis in sábbato: décimas do ómnium, quæ possídeo. Et publicánus a longe stans nolébat nec óculos ad cœlum leváre: sed percutiébat pectus suum, dicens: Deus, propítius esto mihi peccatóri. Dico vobis: descéndit hic iustificátus in domum suam ab illo: quia omnis qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

Séguito del S. Vangelo secondo Luca 18, 9-14

In quel tempo, ad alcuni che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri, Gesù disse questa parabola: "Due uomini salirono al tempio per pregare: uno era fariseo, l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: Signore, Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, o come anche questo pubblicano. Io digiuno due volte il sabato e dò le decime di tutto quello che posseggo. E il pubblicano, stando lontano, non osava neppure levare lo sguardo in alto, ma si percuoteva il petto, dicendo: O Dio, sii clemente con me peccatore. Orbene, io vi dico che questi ritornò a casa sua giustificato a preferenza dell’altro, poiché chi si esalta verrà umiliato e chi si umilia verrà esaltato".

La parabola del fariseo e del pubblicano, definita da sant'Agostino di Ippona (De Verb. Dom.) come "parabola dell'umiltà", è riportata esclusivamente nel vangelo di Luca, nel contesto della necessità della preghiera. «La fede - scrive il saggio Padre della Chiesa - non appartiene ai superbi, ma agli umili». Infatti, Gesù narra questa parabola a coloro "che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri", dimenticando che la mormorazione è sempre un peccato gravissimo.

Per essere efficace, la preghiera deve essere ispirata da un cuore umile, che riconosce la propria dipendenza da Dio e la propria vulnerabilità al peccato. La preghiera è infatti una forma di sacrificio. Come possiamo dedicare il nostro tempo a Dio se crediamo di aver già raggiunto la perfezione? È certamente possibile raggiungere un alto grado di perfezione cristiana in questa vita, come dimostrano innumerevoli santi. Tuttavia, l'umiltà è parte integrante di questa perfezione, perché questa piccola virtù - lungi dall'essere una svalutazione gratuita di sé - è in realtà la chiave del realismo cristiano.

La persona umile non è quella che si considera inferiore a ciò che è, ma colui che, libero da un eccessivo amor proprio, è capace di giudicarsi con obiettività, esaminando i propri vizi e virtù. È colui che riesce a "trascendere se stesso" per vedersi con gli occhi di Dio. Il superbo, al contrario, non è razionale: si guarda esclusivamente attraverso gli occhi dell'amor proprio (e non tutti gli amori sono buoni) e spesso con gli occhi dell'invidia e del rancore. Il pubblicano nella parabola si riconosce peccatore e lo è veramente, perché si vede con obiettività. Questo giudizio veritiero genera la contrizione del cuore, che ottiene il perdono di Dio. Il fariseo, invece, è incapace di dare un giudizio veritiero su se stesso. Il primo passo per crescere nella virtù e dunque nella santità è l'umiltà, ossia la capacità di giudicarsi. Si può forse raggiungere una meta senza conoscere il percorso da intraprendere? Forse sì, ma con estrema difficoltà. L'umiltà è come la mappa dell'anima, il mezzo attraverso il quale possiamo leggere le tappe del nostro cammino di santificazione, grazie alla luce proveniente dalla preghiera, dalla direzione spirituale e dai Sacramenti.

San Benedetto da Norcia, nella sua famosa Regola, scrive che l'umiltà è come una scala composta da dodici gradini. Questo ci fa capire quanto sia difficile coltivare questa virtù, che è così fondamentale. La società frenetica contemporanea non ci sprona all'umiltà, che viene spesso indicata come un vizio. Oggi siamo continuamente spinti verso l'orgoglio, ma non ci viene dato il tempo di riflettere e di chiederci se tutto questo orgoglio ci renda realmente migliori. L'orgoglio ci illude di essere buoni così come siamo. Ci sentiamo buoni, ma è solo un'illusione.

Un proverbio antico recita: "Chi non sale, scende", per indicare che nel progresso spirituale non è possibile stare fermi. L'orgoglio è come le sabbie mobili: ci accontentiamo di ciò che siamo e rimaniamo intrappolati davanti allo specchio di Narciso, ma la natura dell'uomo è tale che, quando ci si ferma lungo la salita al monte della perfezione, inevitabilmente si finisce per essere risucchiati dalla "gravità" del peccato originale. Manteniamo alto lo sguardo, allora, e proseguiamo dritti, anche se con mille fatiche, verso la meta della perfezione.

Questa parabola ci offre anche una profonda riflessione sul significato autentico del culto e del rapporto personale con Dio. Il fariseo, con il suo atteggiamento arrogante, rappresenta coloro che si affidano alle proprie opere e alla propria giustizia, credendo di essere in regola con Dio per i soli propri meriti. Tuttavia, Gesù ci mostra che la vera giustizia non nasce dalle nostre azioni, ma dalla grazia di Dio, che si riversa su coloro che si riconoscono peccatori e bisognosi della Sua misericordia. Solo se siamo in grazia le nostre opere hanno valore.

Il pubblicano, al contrario, rappresenta l'anima che, consapevole dei propri peccati, si rivolge a Dio con umiltà e pentimento. Questo atteggiamento di umile contrizione è il cuore della spiritualità cristiana: riconoscere la propria condizione di peccato e affidarsi completamente alla misericordia divina. «O Dio, abbi pietà di me peccatore», è la preghiera che Dio ascolta e a cui risponde con amore, perché viene da un cuore sinceramente pentito.

La parabola, quindi, ci invita a rivedere il nostro modo di pregare e il nostro atteggiamento verso Dio e verso gli altri. Non dobbiamo mai cadere nella trappola del giudizio e del disprezzo, atteggiamenti che ci allontanano dalla vera comunione con Dio e con i nostri fratelli. Invece, siamo chiamati a coltivare l'umiltà, la sincerità e la carità, sapendo che la nostra giustificazione viene da Dio e non dai nostri sforzi. 

Gaetano Masciullo

sabato 20 luglio 2024

Chiesa tutta, desidera la vera Pace!

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 19, 41-47

In illo témpore: Cum appropinquáret Iesus Ierúsalem, videns civitátem, flevit super illam, dicens: Quia si cognovísses et tu, et quidem in hac die tua, quæ ad pacem tibi, nunc autem abscóndita sunt ab óculis tuis. Quia vénient dies in te: et circúmdabunt te inimíci tui vallo, et circúmdabunt te: et coangustábunt te úndique: et ad terram prostérnent te, et fílios tuos, qui in te sunt, et non relínquent in te lápidem super lápidem: eo quod non cognóveris tempus visitatiónis tuæ. Et ingréssus in templum, cœpit eiícere vendéntes in illo et eméntes, dicens illis: Scriptum est: Quia domus mea domus oratiónis est. Vos autem fecístis illam speluncam latrónum. Et erat docens cotídie in templo.

Séguito del S. Vangelo secondo Luca 19, 41-47

In quel tempo, essendo Gesù giunto vicino a Gerusalemme, scorgendo la città, pianse su di essa, dicendo: "Se in questo giorno avessi conosciuto anche tu quello che occorreva per la tua pace! Ma tutto ciò è ormai nascosto ai tuoi occhi. Perciò per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno con trincee, ti assedieranno e ti angustieranno da ogni parte; e getteranno a terra te e i tuoi figli che abitano in te, e non lasceranno in te pietra su pietra, poiché non hai conosciuto il tempo in cui sei stata visitata". Entrato poi nel tempio, cominciò a cacciare quanti lì dentro vendevano e compravano, dicendo loro: "Sta scritto: La mia casa è casa di preghiera. Voi invece ne avete fatta una spelonca di ladri". E ogni giorno insegnava nel tempio.

Luca ci narra di Gesù che piange sulla Città Santa e predice i castighi che si abbatteranno su di essa. Questa profezia, dal punto di vista storico, si è concretizzata con l'assedio di Gerusalemme nel 70 d.C. per opera dei romani guidati da Tito, un assedio che aveva l'obiettivo di reprimere una rivolta ben organizzata degli zeloti e che culminò con la distruzione del Tempio e la deportazione di molti oggetti sacri custoditi nel suo sancta sanctorum.

Storicamente, il popolo di Israele ha rifiutato di riconoscere Gesù come il Messia, il Cristo promesso da Dio non solo ai discendenti di Abramo, ma all'intera umanità. Infatti, la promessa del Messia risale ai primissimi momenti successivi al peccato originale, molti secoli prima della nascita di Abramo. Israele, il popolo dell'Antica Alleanza, è stato disperso a causa della sua invidia, cecità e superbia. La Fede salvifica è stata offerta a tutti gli uomini di buona volontà, indipendentemente dalla razza, come scrive san Paolo: "Non c'è più giudeo né greco" (Galati 3,28). La Chiesa, di cui Israele era una prefigurazione, è stata destinata ad abbracciare tutto il globo, come predisse san Paolo a Roma (cfr. Atti 28, 25-28).

Certamente vi è un significato spirituale, che dobbiamo cogliere in questo lamento di Nostro Signore, considerando che Gerusalemme rappresenta misticamente la Chiesa. Tante volte, nel corso della storia, la Chiesa sembra aver tradito il proprio mandato ricevuto da Cristo, quello di annunciare il Vangelo e di battezzare. Certo, il Signore è lento all'ira, ma castiga nel momento più propizio, e questo sia per un aspetto di giustizia sia per un aspetto di misericordia.

Giustizia è dare a ciascuno secondo ciò che merita, nel bene o nel male, mentre misericordia è dare a ciascuno secondo ciò di cui ha bisogno. Queste due virtù, che in noi possono agire indipendentemente l'una dall'altra, in Dio sono sempre intimamente unite, così che Egli non agisce mai da giusto senza essere misericordioso, e viceversa. Ogni castigo che Dio invia è un male fisico o spirituale, mai morale (cioé il peccato, il quale invece procede solo e sempre da noi stessi). Il male morale è l'unico vero male. I mali fisici e spirituali, invece, sono mali solo relativamente a chi li riceve, non relativamente al fine ultimo. Perché dunque questi mali? Perché i castighi? Perché le sofferenze? L'uomo soffre a causa della sua cattiva condotta, ma anche - ciò sembra paradossale per l'uomo moderno abituato a pretendere il piacere di diritto - perché ne ha bisogno. L'uomo, ferito dal peccato originale, non sa davvero comprendere cosa è bene e cosa è male, finché non ne fa davvero esperienza fino in fondo.

La Chiesa, come Gerusalemme, è chiamata a riflettere sul proprio cammino e a chiedere perdono per i propri tradimenti e peccati. Nostro Signore, nel piangere su Gerusalemme, piange anche per le infedeltà del suo popolo, che è chiamato a portare la luce del Vangelo in un mondo oscurato dal peccato. Ogni volta che la Chiesa si allontana dalla sua missione, sperimenta i castighi divini, che sono sempre finalizzati a ricondurla sulla retta via. Come leggiamo in Ebrei 12, 6: "Il Signore corregge colui che ama e percuote chiunque riconosce come figlio." I castighi di Dio sono sempre un invito alla conversione e alla santità. Non sono mai semplici punizioni sadiche, ma strumenti di amore paterno che ci chiamano a riflettere, a pentirci e a tornare a Lui con cuore contrito. Come dice il salmista: "Beato l'uomo che tu castighi, Signore, e a cui insegni la tua legge, per dargli riposo nei giorni di sventura" (Salmo 94, 12-13). 

Questo è il cammino di santificazione a cui siamo tutti chiamati, un cammino che passa attraverso la croce, ma che conduce alla gloria della resurrezione.

Gaetano Masciullo

sabato 13 luglio 2024

Santa Toscana ci insegna a cercare la perla di gran prezzo

 

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaeum 13, 44-52.

In illo tempore: Dixit Iesus discipulis suis parabolam hanc: Simile est regnum cælorum thesauro abscondito in agro : quem qui invenit homo, abscondit, et præ gaudio illius vadit, et vendit universa quæ habet, et emit agrum illum. Iterum simile est regnum cælorum homini negotiatori, quærenti bonas margaritas. Inventa autem una pretiosa margarita, abiit, et vendidit omnia quæ habuit, et emit eam. Iterum simile est regnum cælorum sagenæ missæ in mare, et ex omni genere piscium congreganti. Quam, cum impleta esset, educentes, et secus littus sedentes, elegerunt bonos in vasa, malos autem foras miserunt. Sic erit in consummatione sæculi: exibunt angeli, et separabunt malos de medio justorum, et mittent eos in caminum ignis : ibi erit fletus, et stridor dentium. Intellexistis hæc omnia? Dicunt ei: Etiam. Ait illis: Ideo omnis scriba doctus in regno cælorum, similis est homini patrifamilias, qui profert de thesauro suo nova et vetera.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 13, 44-52.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto in un campo; un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Il regno dei cieli è simile anche a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Quando è piena, i pescatori la tirano a riva e poi, sedutisi, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete capito tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba divenuto discepolo del regno dei cieli è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Nel celebrare la festa di santa Toscana, figura straordinaria di santità e dedizione che ha arricchito la comunità dei credenti con il suo esempio di fede, carità, umiltà e amore per i poveri, la Chiesa proclama una sequenza tratta dal vangelo di Matteo che ben la rappresenta. In effetti, la vita di santa Toscana incarna perfettamente le parabole che Gesù ci propone, offrendoci una chiara dimostrazione di come il Regno dei Cieli possa trasformare una vita dedicata completamente a Dio.

Il vangelo di oggi ci presenta tre parabole che Gesù racconta per illustrare la natura del Regno dei Cieli: la parabola del tesoro nascosto nel campo, la parabola della perla di grande valore e quella della rete gettata nel mare. Ognuna di queste parabole ci insegna qualcosa di profondo sulla nostra fede e sulla nostra relazione con Dio.

Gesù inizia con la parabola del tesoro nascosto nel campo. Un uomo scopre questo tesoro e, pieno di gioia, vende tutto ciò che possiede per comprare quel campo. Questa parabola ci parla del valore inestimabile del Regno dei Cieli. Quando lo troviamo, nulla è più importante di esso, tanto che siamo disposti a sacrificare tutto il resto per possederlo. Santa Toscana ha vissuto questa parabola nella sua vita. Dopo la morte del suo marito, anziché lasciarsi travolgere dal dolore e dalla disperazione, ha scelto di dedicare la sua vita a Dio e ai bisognosi. Ha venduto simbolicamente tutto ciò che possedeva - le sue sicurezze, il suo status sociale - per acquistare il campo del Regno dei Cieli, vivendo nella povertà e servendo i malati e i poveri con grande amore.

La seconda parabola è quella del mercante in cerca di perle preziose. Quando il mercante trova una perla di grande valore, vende tutto ciò che ha per comprarla. Qui Gesù ci insegna che il Regno dei Cieli è la perla preziosa, qualcosa per cui vale la pena sacrificare ogni altra cosa. Certamente essa può apparire piccola e quasi insignificante, ma uno spirito sensibile e attento non può rimanere indifferente dinanzi a una così sconfinata vocazione. Santa Toscana ha ben riconosciuto la perla di grande valore nella sua chiamata a servire Cristo nei poveri. Nonostante le difficoltà e le sofferenze, ha scelto di seguire Gesù con un cuore indiviso. La sua dedizione alla preghiera, alla carità e al servizio è un esempio luminoso di come riconoscere e valorizzare ciò che è veramente importante nella vita, ciò che dura per l'eternità.

L'ultima parabola raccontata da Gesù ci parla di una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci. Una volta piena, i pescatori separano i pesci buoni dai cattivi. Questa parabola ci parla del Giudizio finale, quando Dio separerà i giusti dai malvagi. Santa Toscana, attraverso la sua vita di preghiera e penitenza, ha vissuto con la consapevolezza costante del giudizio di Dio. Ha cercato di vivere una vita di santità, sapendo che un giorno sarebbe stata chiamata a rendere conto delle sue azioni. La sua vita ci ricorda l'importanza di vivere in modo che, alla fine dei tempi, possiamo essere trovati degni di entrare nel Regno dei Cieli.

Il Regno dei Cieli non è dunque una realtà lontana, ma qualcosa che possiamo sperimentare qui e ora attraverso la nostra fede e le nostre azioni. I santi - e in particolare oggi santa Toscana - ci insegnano che il vero tesoro, la perla di grande valore, è trovare Cristo e vivere secondo i suoi insegnamenti. Il suo esempio ci invita a cercare con tutto il cuore il Regno dei Cieli e a vivere in modo che le nostre vite riflettano la giustizia e la misericordia di Dio. Come Santa Toscana, anche noi siamo chiamati a sacrificare tutto ciò che abbiamo per seguire Cristo. Questo non significa necessariamente vendere tutte le nostre proprietà, vivere di una povertà materiale, ma piuttosto di una povertà spirituale, un sano e autentico distacco del cuore: "Beati i poveri in spirito, perché di essi è il Regno dei Cieli". Mettere Dio al primo posto nelle nostre vite, sopra ogni altra cosa. Significa essere pronti a rinunciare alle nostre sicurezze per servire gli altri e vivere secondo il vangelo.

Nel mondo di oggi, questo può apparire una sfida insormontabile. Viviamo in una società che spesso valorizza il successo materiale e la gratificazione immediata. Ma le vite dei santi, tanto diverse eppure tanto uguali nel corso dei millenni, ci mostrano che la vera gioia e la vera pace si trovano solo nel servizio di Dio. In questa festa di santa Toscana, allora, preghiamo affinché possiamo imitare la sua dedizione e il suo amore per Cristo. Che possiamo trovare il coraggio per cercare qui il Regno dei Cieli con tutto il nostro cuore, disposti a sacrificare tutto per seguire il nostro Signore. Che le parabole di oggi ci ispirino a vivere una vita di fede autentica, ricordandoci che il vero tesoro, la perla di grande valore, è il nostro rapporto con Dio. E che, come santa Toscana, possiamo vivere in maniera degna da ricevere, alla fine dei nostri giorni, la ricompensa del Regno dei Cieli, la gioia e la gratitudine senza tramonto.

Gaetano Masciullo

sabato 6 luglio 2024

Discernere i frutti per riconoscere i profeti

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 7, 15-21

In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Atténdite a falsis prophétis, qui véniunt ad vos in vestiméntis óvium, intrínsecus autem sunt lupi rapáces: a frúctibus eórum cognoscétis eos. Numquid cólligunt de spinis uvas, aut de tríbulis ficus? Sic omnis arbor bona fructus bonos facit: mala autem arbor malos fructus facit. Non potest arbor bona malos fructus fácere: neque arbor mala bonos fructus fácere. Omnis arbor, quæ non facit fructum bonum, excidétur et in ignem mittétur. Igitur ex frúctibus eórum cognoscétis eos. Non omnis, qui dicit mihi, Dómine, Dómine, intrábit in regnum cœlórum: sed qui facit voluntátem Patris mei, qui in cœlis est, ipse intrábit in regnum cœlórum.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 7, 15-21

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: "Fate attenzione ai falsi profeti, che vengono a voi sotto l’aspetto di pecore, ma che nell’intimo sono lupi rapaci: li riconoscerete dai loro frutti. Forse qualcuno raccoglie l’uva dalle spine o il fico dai rovi? Così ogni albero buono dà buoni frutti; mentre l’albero cattivo dà frutti cattivi. Non può l’albero buono produrre frutti cattivi, né l’albero cattivo produrre frutti buoni. Ogni albero che dà frutti cattivi sarà tagliato e gettato nel fuoco. Dunque, dai loro frutti li riconoscerete. Non chiunque mi dirà: Signore, Signore, entrerà nel Regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, questi entrerà nel regno dei cieli".

Nel vangelo di oggi, il Signore si rivolge direttamente agli apostoli, ossia ai sacerdoti e ai vescovi della Chiesa, con un avvertimento cruciale: "Guardatevi dai falsi profeti". È significativo notare che Gesù non avverte i vescovi contro i falsi maestri, cioé contro coloro che semplicemente interpretano erroneamente la Parola di Dio, ma contro i falsi profeti, cioé contro coloro che affermano di parlare in nome di Dio, ma che in realtà agiscono in nome di Satana.

San Pietro fa una chiara distinzione tra queste due figure nella sua prima lettera: "Vi furono però anche falsi profeti tra il popolo, come anche tra voi ci saranno falsi maestri, i quali introdurranno eresie di perdizione e rinnegheranno il Signore che li ha riscattati, attirandosi una pronta rovina" (1Pietro 2,1).

Al tempo di Gesù, l'attenzione era rivolta ai farisei, che sedevano sulla cattedra di Mosè, ma sfruttavano la Legge per i loro scopi. Tuttavia, l'evangelista Matteo, nel trascrivere queste parole, aveva ormai ben presenti i numerosi eresiarchi che avevano preso piede all'interno della Chiesa stessa, in particolare i capi delle varie sette gnostiche. Questi si presentavano come cristiani, ma nelle parole e nelle azioni rinnegavano il vangelo di Cristo.

Interessante è analizzare il metodo di discernimento che Gesù suggerisce in questo brano di vangelo. Gesù ci dice che i falsi profeti vengono vestiti con pelli di pecora. In questo modo, Gesù ci dice che i falsi profeti sono soliti professare semplicità, povertà e mitezza. La Chiesa è però chiamata a discernere per capire cosa si nasconde sotto quelle vesti: essi possono essere "lupi voraci". L'aggettivo usato in greco dall'evangelista Matteo - àrpaghes - indica una doppia voracità: sia di colui che è violento, del lupo che divora le proprie prede, sia di colui che è avido, che vuole derubare il prossimo per arricchire se stesso. Dunque c'è questa doppia finalità nel falso profeta: egli vuole arricchire se stesso, di denaro e di beni terreni, oppure semplicemente di vana gloria, e poi egli vuole divorare, cioé uccidere spiritualmente l'anima di colui che viene ingannato, cioè conduce alla loro dannazione eterna.

Come fare per vedere oltre le vesti di pecora? Gesù ci indica il metodo: anzitutto aspettare, e poi analizzare con molta attenzione i frutti, cioè le opere di costoro e i loro effetti. Il Signore afferma che un albero buono - cioè un'anima innestata in Dio - non può dare frutti cattivi, mentre un albero cattivo - etimologicamente in greco: "marcio" - non può dare frutti buoni - etimologicamente in greco: "belli a vedersi".

Un albero cattivo non può produrre frutti buoni. Questo perché il Signore qui non sta parlando di frutti buoni generici, ma di particolari conseguenze che solo un animo buono, cioè ripieno della grazia di Dio, può produrre. San Paolo ci avvisa chiaramente e ci indica con chiarezza quali sono questi frutti buoni cui Gesù in questa pagina di vangelo semplicemente allude: "frutto dello Spirito è la carità, la gioia, la pace, la pazienza, la benignità, la bontà, la longanimità, la mansuetudine, la fedeltà, la modestia, la continenza, la castità" (Galati 5, 22-23).

Allo stesso modo, san Paolo ci elenca anche i frutti cattivi, con cui possiamo riconoscere sicuramente i falsi profeti: "Si riconoscono facilmente le opere della carne, che sono la fornicazione, l'impurità, l'impudicizia, la lussuria, l'idolatria, i venefici, le inimicizie, le contese, le gelosie, le ire, le risse, le discordie, le sette, le invidie, gli omicidi, le ubriachezze, le gozzoviglie, ed altre simili cose, riguardo alle quali vi avverto, come vi ho già avvertiti, che chi fa tali cose non conseguirà il regno di Dio" (Galati 5, 19-21).

Questi dunque sono i frutti buoni e cattivi di cui ci parla il Signore, e non è possibile che un falso profeta manifesti questi frutti, perché non c'è lo Spirito Santo in lui. Per distinguere i veri dai falsi profeti, dunque, basterà analizzare la persona in rapporto a questi frutti: se manca anche uno solo di essi, ecco che abbiamo la prova, la dimostrazione che egli parla non per conto di Dio, ma per conto del proprio ego, e quindi di Satana. 

Gaetano Masciullo

La poca fede degli israeliti contro la grande fede dei pagani?

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum 8, 1-13. In illo témpore: Cum descendísset Iesus de monte, secútae sunt eum turbae multae: et ecce...