La parabola del fariseo e del pubblicano è chiamata da sant'Agostino di Ippona (de Verb. Dom.) "parabola dell'umiltà". Essa si trova unicamente nel vangelo secondo Luca, in un contesto più generale sulla necessità della preghiera.
«La fede - scrive il sapiente Padre della Chiesa - non è dei superbi, ma degli umili». Gesù infatti narra questa parabola ad alcuni "che si ritenevano giusti e disprezzavano gli altri", dimenticando che la mormorazione è sempre un gravissimo peccato.
La preghiera per essere efficace deve essere dunque dettata da un cuore umile, che cioé si riconosca bisognoso di Dio e facilmente esposto alla caducità del peccato.
La preghiera è infatti una forma di sacrificio. Come si può sacrificare il proprio tempo a Dio, se riteniamo di aver raggiunto già il massimo grado della perfezione? Certamente, è possibile raggiungere una grande perfezione cristiana già in questa vita (ci sono innumerevoli santi a testimoniarlo). L'umiltà tuttavia è parte di questa perfezione, perché questa piccola virtù - lungi dall'essere uno sminuimento gratuito della propria persona - è in realtà la chiave del realismo cristiano.
La persona umile non è quella che ritiene di essere inferiore a ciò che egli è, ma è colui che, libero da un eccessivo amor proprio, è capace di giudicare, di esaminare se stesso, nei vizi e nelle virtù, con oggettività. E' colui che è capace di "trascendere se stesso" per guardarsi con gli occhi di Dio.
Il superbo, al contrario, non è razionale: guarda se stesso esclusivamente con gli occhi dell'amor proprio (proprio così: non tutti gli amori sono cosa buona) e, molto spesso, con gli occhi dell'invidia e del rancore. Il pubblicano della parabola si riconosce peccatore e lo era davvero, perché guarda se stesso con oggettività. Questo giudizio vero genera la contrizione del cuore, che ottiene il perdono di Dio.
Il fariseo insuperbito, invece, non è capace di dare un giudizio veritiero su se stesso. Il primo passo per crescere nella virtù e dunque nella santità è l'umiltà, cioé la capacità di giudicarsi. Si può forse raggiungere una meta senza conoscere il viaggio da intraprendere? Forse sì, ma con estrema difficoltà. L'umiltà è come la cartina dell'anima, il mezzo sul quale possiamo leggere le tappe della nostra via sanctificationis, grazie alla luce proveniente dalla preghiera, dalla direzione spirituale e dai Sacramenti.
Un altro grande santo, san Benedetto da Norcia, nella sua famosa Regola scrive che l'umiltà è come una scala composta da dodici gradini. Questo fa capire quanto sia difficoltoso coltivare questa virtù, che pure è così fondamentale.
Ecco i dodici gradi dell'umiltà:
La società frenetica contemporanea non ci sprona all'umiltà, che è anzi esplicitamente indicata come un vizio. Oggi siamo continuamente spronati all'orgoglio, ma non ci è dato il tempo di riflettere e di chiederci se tutto questo orgoglio ci renda realmente migliori. L'orgoglio ci illude di essere buoni così come siamo. Ci sentiamo buoni, ma è solo una illusione.
Un proverbio antico recita: "Chi non sale, scende", per dire che nel progresso spirituale non è possibile stare fermi. L'orgoglio è come le sabbie mobili: ci accontentiamo di quello che siamo e ci impantaniamo davanti allo specchio di Narciso, ma la natura dell'uomo è tale che, quando ci si ferma lungo la salita al monte della perfezione, inevitabilmente si finisce per essere risucchiati dalla "gravità" del peccato originale.
Teniamo alto lo sguardo, allora, e proseguiamo dritti, anche se con mille fatiche, verso la meta della perfezione.
Gaetano Masciullo
Sequéntia S. Evangélii secundum Ioánnem 16, 5-14. In illo témpore: Dixit Iesus discípulis suis: Vado ad eum, qui misit me: et nemo ex vobis ...
Nessun commento:
Posta un commento