sabato 25 gennaio 2025

La poca fede degli israeliti contro la grande fede dei pagani?

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum 8, 1-13.

In illo témpore: Cum descendísset Iesus de monte, secútae sunt eum turbae multae: et ecce leprósus véniens adorábat eum, dicens: Dómine, si vis potes me mundáre. Et exténdens Iesus manum, tétigit eum, dicens: Volo. Mundáre. Et conféstim mundáta est lepra eius. Et ait illi Iesus: Vide, némini díxeris: sed vade, osténde te sacerdóti, et offer munus, quod praecépit Móyses, in testimónium illis. Cum áutem introísset Caphárnaum, accéssit ad eum centúrio, rogans eum, et dicens: Dómine, puer meus iacet in domo paralyticus, et male torquétur. Et ait illi Iesus: Ego véniam, et curábo eum. Et respóndens centúrio, ait: Dómine, non sum dignus, ut intres sub tectum meum: sed tantum dic verbo, et sanábitur puer meus. Nam et ego homo sum sub potestáte constitútus, habens sub me mílites et dico huic: Vade, et vadit; et álii: veni, et venit; et servo meo: Fac hoc, et facit. Áudiens autem Iesus, mirátus est, et sequéntibus se dixit: Amen dico vobis, non invéni tantam fidem in Israël. Dico autem vobis, quod multi ab Oriénte et Occidénte vénient, et recúmbent cum Abraham, et Isaac, et Iacob in regno coelórum: fílii autem regni eiiciéntur in ténebras exterióres: ibi erit fletus, et stridor déntium. Et dixit Iesus centurióni: Vade, et sicut credidísti, fiat tibi. Et sanátus est puer in illa hora.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 8, 1-13.

In quel tempo, quando Gesù fu sceso dal monte, molta folla lo seguiva. Ed ecco un lebbroso, appena giunto, lo adorava, dicendo: "Signore, se vuoi, puoi purificarmi". E Gesù, stendendo la mano, lo toccò, dicendo: "Lo voglio. Sii purificato". E subito la sua lebbra scomparve. Poi Gesù gli disse: "Guardati dal dirlo a qualcuno, ma va' a mostrarti al sacerdote e presenta l'offerta prescritta da Mosè, e ciò serva come testimonianza per loro". Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: "Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente". Gesù gli rispose: "Io verrò e lo curerò". Ma il centurione riprese: "Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, di' soltanto una parola e il mio servo sarà guarito. Perché anch'io, che sono un subalterno, ho soldati sotto di me e dico a uno: Va', ed egli va; e a un altro: Vieni, ed egli viene; e al mio servo: Fa' questo, ed egli lo fa". All'udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: "In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande. Ora vi dico che molti verranno dall'oriente e dall'occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli, mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti". E Gesù disse al centurione: "Va', e sia fatto secondo la tua fede". In quell'istante il servo guarì.

Nel Vangelo odierno, si narrano due eventi miracolosi di guarigione, distinti ma intimamente connessi nel loro significato spirituale, tanto da essere proclamati insieme dalla Chiesa nella stessa liturgia. Il primo episodio riguarda un lebbroso completamente sanato da Gesù. L’Evangelista descrive il lebbroso che “adorava” il Signore, segno che quest’uomo, nonostante la grave malattia che lo riduceva a una condizione di estrema sofferenza fisica e umana, aveva riconosciuto in Gesù il Messia promesso, Dio stesso incarnato. Nel contesto della cultura ebraica, dove solo Dio poteva essere adorato, questo gesto rivela una fede illuminata da una grazia speciale.

La preghiera del lebbroso è un atto di fiducia e abbandono: “Signore, se vuoi, puoi purificarmi”. Egli non si rivolge a Gesù semplicemente come a un maestro ("Rabbì”), ma come a Dio (“Adonai”). La risposta di Gesù è piena di autorità divina: “Lo voglio: sii purificato”. L’umile sottomissione del lebbroso si incontra con la volontà onnipotente di Cristo.

La Chiesa vede in questa guarigione storica un significato simbolico: il lebbroso rappresenta Israele, piagato dal peccato, in particolare dalla superbia e dall’invidia, che avevano accecato gli occhi dei farisei e degli scribi, impedendo loro di riconoscere e adorare Gesù come vero Dio. Tuttavia, Gesù ordina al lebbroso di mantenere riservatezza e di attenersi alla Legge mosaica: “Va’, mostrati ai sacerdoti e offri quanto prescritto da Mosè, affinché serva loro da testimonianza”. Questo comando richiama le prescrizioni di Levitico (14, 1-32) sui sacrifici da offrire per la purificazione, un rito riservato ai sacerdoti.

Con questo gesto, Gesù comunica due verità fondamentali. La prima è il carattere sacerdotale della redenzione: Cristo, sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek, offre se stesso come sacrificio, non con il sangue di animali, ma con il proprio sangue, per redimere l’umanità dalla lebbra del peccato. La seconda è una testimonianza per i sacerdoti del Tempio, che avrebbero dovuto riconoscere nella guarigione e nelle parole del lebbroso la natura divina di Gesù. Tuttavia, molti di loro, per invidia, rifiutarono di accettarlo e adorarlo.

A questo primo miracolo si collega il secondo, quello del servo paralitico del centurione romano. Se da un lato le autorità ebraiche mancavano di fede, dall’altro, un pagano dimostra una fede straordinaria. Gesù, colpito dalla sua fiducia, esclama: “In Israele non ho trovato una fede così grande”. Questo episodio evidenzia che la fede non è un semplice sentimento, ma una virtù soprannaturale infusa da Dio, che implica l’adesione dell’intelletto alle verità rivelate. San Tommaso d’Aquino spiega che la fede può essere esplicita, quando si conoscono e si accettano le verità rivelate, oppure implicita, quando si crede in Dio e nella sua provvidenza senza conoscere pienamente le verità di fede rivelate e particolari. 

Il centurione possedeva questa fede implicita: pur non avendo conoscenza diretta della rivelazione, egli confidava nell’onnipotenza di Dio e nel potere di Gesù. Cristo, lamentandosi della poca fede di Israele, denuncia la cecità delle autorità religiose, che avrebbero dovuto possedere una fede esplicita nel Messia. Eppure, la fede implicita del centurione pagano supera quella esplicita dei sacerdoti ebrei.

Questo paradosso prefigura la Chiesa cattolica e la Nuova Alleanza, aperta a tutti gli uomini di buona volontà: “Molti verranno da Oriente e da Occidente e siederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli”. La salvezza non è più un privilegio esclusivo di Israele, ma un dono offerto all’umanità intera, chiamata a partecipare alla fede e alla redenzione portata da Cristo.

Gaetano Masciullo

sabato 18 gennaio 2025

Maria come mediatrice: perché il primo miracolo di Gesù passa da sua madre


Sequéntia S. Evangélii secundum Ioánnem 2, 1-11.

In illo témpore: Núptiae factae sunt in Cana Galilaéae: et erat mater Iesu ibi. Vocátus est áutem et Iesus et discípuli eius ad núptias. Et deficiénte vino, dicit mater Iesu ad eum: Vinum non habent. Et dicit ei Iesus: Quid mihi et tibi est, múlier? nondum venit hora mea. Dicit mater eius minístris: Quodcúmque díxerit vobis, fácite. Erant áutem ibi lapídeae hydriae sex pósitae secúndum purificatiónem Iudaeórum, capiéntes síngulae metrétas binas vel ternas. Dicit eis Iesus: Impléte hydrias aqua. Et implevérunt eas usque ad summum. Et dicit eis Iesus: Hauríte nunc, et ferte architriclíno. Et tulérunt. Ut áutem gustávit architriclínus aquam vinum factam, et non sciébat unde esset, minístri áutem sciébant, qui háuserant aquam: vocat sponsum architriclínus, et dicit ei: Omnis homo primum bonum vinum ponit: et cum inebriáti fúerint, tunc id, quod detérius est: tu áutem servásti bonum vinum usque adhuc. Hoc fecit inítium signórum Iesus in Cana Galilaéae: et manifestávit glóriam suam et credidérunt in eum discípuli eius.

Seguito del S. Vangelo secondo Giovanni 2, 1-11.

In quel tempo, vi furono delle nozze in Cana di Galilea, e la madre di Gesù si trovava lì. Alle nozze fu invitato, dunque, anche Gesù e i suoi discepoli. Venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli dice: "Non hanno vino". E Gesù le dice: "Che cosa c'è tra me e te, donna? La mia ora non è ancora arrivata". Dice sua madre ai servi: "Qualunque cosa vi avrà detto, fatela". Ora, c'erano in quel luogo sei giare di pietra, poste a servizio della purificazione dei Giudei, ciascuna contenente due o tre metrete. Gesù dice loro: "Riempite le giare di acqua". E le riempirono fino all’orlo. E Gesù dice loro: "Ora attingete e portate al maestro di tavola". E ne portarono. Quando il maestro di tavola assaggiò l'acqua diventata vino, non sapeva da dove venisse, ma i servi che avevano attinto l'acqua lo sapevano. Il maestro di tavola chiama lo sposo e gli dice: "Chiunque serve prima il vino buono, e quando sono inebriati, allora serve quello peggiore; ma tu, al contrario, hai conservato il vino buono fino ad ora". Gesù fece questo primo segno in Cana di Galilea e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui.

Il racconto delle nozze di Cana, riportato da san Giovanni apostolo ed evangelista, ci introduce al primo segno pubblico di Gesù, un termine che Giovanni sceglie accuratamente.  Nel contesto giovanneo, il termine segno assume una valenza teologica precisa, indicante un evento che non solo rivela l'identità di Gesù, ma invita i testimoni a una risposta. Non è un semplice miracolo, ma un segno, ossia un atto che rimanda a una realtà più alta e nascosta: la natura divina di Cristo. Siamo di fronte all'ennesima epifania del Signore. L’evangelista sottolinea, infatti, che questo segno servì a manifestare la gloria di Gesù, ma la gloria è un attributo proprio di Dio, che indica la sua maestà e regalità. San Tommaso d’Aquino definisce la gloria come l’evidenza della maestà divina. Magnificare Dio, rendere maggiore la gloria di Dio, significa concretamente evangelizzare: far conoscere al mondo che Dio esiste, provvede e salva. L'aumento della gloria di Dio è quindi un obiettivo supremo per noi cristiani: più uomini conoscono Dio, più la sua gloria risplende sulla terra.

Questo primo segno avviene in un contesto altamente simbolico, quello delle nozze. Nel linguaggio biblico, il matrimonio è l'immagine dell’unione mistica tra Dio e l’umanità. La Chiesa stessa è descritta come la Sposa di Cristo, e l’Eucaristia ne è il banchetto nuziale quotidiano. Quale luogo migliore per il primo segno pubblico di Gesù? Il nome del villaggio, Cana, che significa "acquisto", ci offre un ulteriore spunto di riflessione: l’umanità, decaduta a causa del peccato originale, non può riacquistare la grazia perduta. Solo Cristo, attraverso il sacrificio della croce, può compiere questo riscatto e ridonare la grazia divina.

Un elemento cruciale è, in questa pagina di vangelo, l’intercessione di Maria. Durante il banchetto, il vino finisce — simbolo biblico della grazia divina, che dà gioia e rende vivo il rapporto di amicizia tra Dio e l’uomo. Senza la grazia, l’uomo cade in uno stato di mera creaturalità, perde la "somiglianza di Dio", diviene incapace di elevarsi al di sopra della sua condizione materiale. Maria, attenta osservatrice dei bisogni umani, si accorge della mancanza di vino, cioé dell'assenza della grazia divina nell'umanità, della quale lei invece è ricolma, come rivelò l'Angelo al momento dell'Incarnazione. 

Con cuore materno, ella intercede presso suo Figlio. In questo modo, l'evangelista sottolinea il ruolo unico e prezioso di Maria come mediatrice tra l’umanità e Cristo. Maria non agisce per imporre, ma per indicare con dolce fermezza la necessità di un intervento divino, prefigurando così la sua continua intercessione nella storia della salvezza, nella storia della Chiesa. Qui emerge il ruolo unico di Maria nell’economia della salvezza: certo non è lei la fonte della grazia, che proviene esclusivamente da Cristo, ma è la mediatrice che supplica e intercede per l’umanità. 

La risposta di Gesù, "Cosa c'è tra me e te, donna?", è spesso fraintesa. Non è una risposta sgarbata, ma un invito che Gesù rivolge a Maria per riflettere, per meditare sul suo ruolo. Come già avvenuto in altri passaggi dei vangeli, Maria è chiamata continuamente a crescere e meditare sul proprio ruolo nella Chiesa. Il termie donna rimanda direttamente alla profezia contenuta in Genesi 3,15, dove Dio annuncia che la donna e la sua discendenza schiacceranno la testa del serpente. In questo modo, Gesù rivela a Maria che ella ha un ruolo privilegiato come corredentrice, un ruolo subordinato a quello di Cristo, ma essenziale nel piano salvifico.

Significativa è anche l’obbedienza di Maria, che comprende, sa bene che la risposta di Gesù non è da intendere in senso sgarbato, e infatti invita i servi a "fare tutto ciò che Egli vi dirà". Questo gesto sottolinea la fede incrollabile di Maria e la sua scienza infusa soprannaturalmente. Se la risposta di Cristo fosse da intendere in senso burbero, come intendono i protestanti per sminuire il ruolo di Maria, allora Gesù si sarebbe coerentemente voltato dall'altra parte. Avrebbe risposto a Maria: "Fatti i fatti tuoi". Maria, invece, non intende così la risposta di Gesù, cioé come un riprovero, anzi prontamente dice ai servi: "Fate ciò che vi dirà". Anche l’affermazione di Gesù, "La mia ora non è ancora venuta", è cruciale: l’ora si riferisce al momento della sua Passione, quando offrirà se stesso come sacrificio redentore. Il miracolo di Cana, dunque, rimanda ancora una volta al sacrificio della croce e alla restaurazione della grazia.

Due altri elementi molto simbolici sono i servi e le sei giare di pietra. I servi rappresentano i ministri di Dio, in particolare i sacerdoti, chiamati a obbedire e cooperare alla distribuzione della grazia divina. Le giare, usate per la purificazione rituale, richiamano il rito prescritto dalla Legge mosaica, che prevedeva l’uso di acqua per la purificazione dei peccati e l’accesso alla comunione con Dio (cfr. Esodo 30,17-21; Levitico 14). Simboleggiano il passaggio dalla Legge antica alla Legge nuova: dalla purificazione esteriore del corpo alla purificazione interiore dell'intelletto e della volontà, resa possibile dal sangue di Cristo. Il vino — qui da intendere dunque anche in senso eucaristico — diventa il segno della nuova alleanza, dove la grazia non è solo restituita, ma abbondantemente riversata sull'uomo. Le giare sono non a caso di pietra, simbolo biblico della fortezza e della stabilità, un elemento che richiama in maniera diretta la Chiesa, fondata sulla roccia di Pietro e sulla verità immutabile di Cristo.

Le giare, inoltre, sono in numero di sei, che biblicamente è il numero imperfetto che rappresenta l’umanità ferita dal peccato. Il gesto di riempirle d’acqua fino all’orlo simboleggia la grazia che coinvolge, assorbe l'intera natura dell'uomo. 

Quando il maestro di tavola, che non conosce la provenienza del vino, lo assaggia e lo trova migliore del primo, vediamo un’immagine di Israele, il popolo eletto, che nel corso della sua storia non comprende pienamente l’origine della salvezza, ma ne riconosce la bontà. Elogiando lo sposo, il maestro di tavola inconsapevolmente rende grazie a Cristo, il vero sposo dell’umanità redenta, della Chiesa.

Infine, la frase finale del maestro di tavola contiene un insegnamento fondamentale: Dio agisce in modo opposto rispetto al mondo. Nella vita pratica, questo si traduce nella necessità per ciascuno di noi di accogliere con fede e pazienza le difficoltà, riconoscendo che spesso esse sono strumenti divini per maturare spiritualmente, purificarci dai nostri peccati, e avvicinarci così a Dio. Dove il mondo cerca di evitare la sofferenza a ogni costo, la logica divina trasforma le croci quotidiane in opportunità di grazia e di gioia eterna. Se il mondo offre prima il piacere e poi la desolazione, Dio permette inizialmente la sofferenza e la croce, ma dona infine la vera gioia che non tramonta. Il segno di Cana, quindi, non è solo una manifestazione della divinità di Cristo, ma un richiamo alla logica del Vangelo: dalla croce alla gloria, dalla mancanza alla pienezza. Giovanni conclude dicendo che i discepoli credettero in lui: questo è l’obiettivo di ogni segno, condurre alla fede e alla conoscenza della gloria di Dio.

Gaetano Masciullo

sabato 11 gennaio 2025

Ciò che il Ritrovamento di Gesù nel Tempio ci dice della Croce

Sequéntia S. Evangélii secundum Lucam 2, 42-52.

Cum factus esset Iesus annórum duódecim, ascendéntibus illis Ierosólymam secúndum consuetúdinem diéi festi, consummatísque diébus, cum redírent, remánsit puer Iesus in Ierúsalem, et non cognovérunt paréntes eius. Exstimántes áutem illum esse in comitátu, venérunt iter diéi, et requirébant eum inter cognátos et notos. Et non inveniéntes, regréssi sunt in Ierúsalem, requiréntes eum. Et factum est, post tríduum invenérunt illum in templo sedéntem in médio doctórum, audiéntem illos, et interrogántem eos. Stupébant áutem omnes, qui eum audiébant, super prudéntia et respónsis eius. Et vidéntes admiráti sunt. Et dixit mater eius ad illum: Fíli, quid fecísti nobis sic? Ecce pater tuus, et ego doléntes quaerebámus te. Et ait ad illos: Quid est quod me quaerebátis? Nesciebátis quia in his, quae Patris mei sunt, opórtet me esse? Et ipsi non intellexérunt verbum, quod locútus est ad eos. Et descéndit cum eis, et venit Názareth: et erat súbditus illis. Et mater eius conservábat ómnia verba haec in corde suo. Et Iesus proficiébat sapiéntia, et aetáte, et grátia, apud Deum, et hómines.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 2, 42-52.

Quando Gesù raggiunse i dodici anni, essendo essi saliti a Gerusalemme, secondo l’usanza di quella solennità e, passati quei giorni, se ne ritornarono, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, né i suoi genitori se ne avvidero. Ora, pensando che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di cammino, dopo di che lo cercarono tra i parenti e i conoscenti. Ma non avendolo trovato, tornarono a cercarlo a Gerusalemme. E avvenne che, dopo tre giorni, lo trovarono nel Tempio, mentre sedeva in mezzo ai Dottori e li ascoltava e li interrogava. Tutti coloro che lo ascoltavano si stupivano della sua prudenza e delle sue risposte. E vedendolo, ne furono meravigliati. E sua madre gli disse: "Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco che tuo padre e io, addolorati, ti cercavamo". Ed egli rispose loro: "Perché mi cercavate? Non sapevate che è opportuno che io mi dedichi alle cose che sono del Padre mio?". Ed essi non compresero la parola che aveva detto loro. E se ne andò con loro e ritornò a Nazareth, e stava loro sottomesso. E sua madre serbava in cuor suo tutte queste parole. Gesù cresceva in sapienza, in età e in grazia, davanti a Dio e agli uomini.

L'episodio del ritrovamento di Nostro Signore Gesù nel Tempio di Gerusalemme è un passaggio ricco di significati profondi, soprattutto quando lo si contempla alla luce della festività della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe. L'episodio, pur essendo solo un piccolo frammento della vita di Gesù, rivela molteplici aspetti di quella che dovrebbe essere la nostra spiritualità e offre spunti di riflessione per tutti i credenti, in particolare riguardo alla missione di Cristo, al suo rapporto con i genitori e al significato della famiglia.

Nel brano evangelico, ci viene narrato che, dopo il pellegrinaggio annuale a Gerusalemme, Maria e Giuseppe si accorgono a un certo punto che Gesù è rimasto indietro, addirittura è ancora nel Tempio, senza che loro se ne accorgessero. Subito si mette in moto una lunga ricerca, e l’ansia dei genitori è palpabile. Il viaggio di ritorno è lungo e arduo, e l'assenza di Gesù provoca in Maria e Giuseppe un'inquietudine profonda. La loro ansia è comprensibile: il Figlio che Dio ha loro affidato è smarrito, e il cuore di una madre e di un padre non può fare a meno di essere turbato in un simile frangente. 

Ma il loro comportamento ci insegna molto. In primo luogo, l’ansia di Maria e Giuseppe non è una semplice preoccupazione emotiva, ma un’ansia che scaturisce da un amore profondo e disinteressato, da un senso di responsabilità verso il dono ricevuto da Dio. In questo gesto, il credente è chiamato a riflettere su quanto spesso la nostra vita sia percorsa dall’ansia, non solo per ciò che riguarda i nostri affetti più cari, ma anche per le nostre preoccupazioni quotidiane, il nostro rapporto con Dio e la nostra vita spirituale. La ricerca di Gesù, per quanto dolorosa e lunga, è anche un atto di fede. L’ansia che i genitori provano, nella sua intensità, invita a non dimenticare mai che la nostra vita non è mai un cammino privo di difficoltà, ma che ogni ricerca di Cristo è anche un atto di fede che ci conduce alla verità, che è Lui stesso. In questo senso, anche le difficoltà e le ansie della vita, se vissute con fede, possono diventare occasioni per avvicinarci al Signore.

Un aspetto importante che emerge in questo brano è il riferimento all'età di Gesù. Egli aveva solo dodici anni. Nella cultura ebraica, i dodici anni segnavano un passaggio importante nella vita di un giovane, poiché si avvicinava l’ingresso ufficiale nella maturità religiosa e la responsabilità nei confronti della Legge (13 anni per i maschi ebrei). Gesù, però, non ha bisogno di questo rito di passaggio, perché è già maturo prima dell'età fissata dalla comunità israelita. 

La sua conoscenza delle Scritture e la sua capacità di insegnare ai dottori della Legge rivelano una maturità straordinaria, che diviene perciò il segno della sua divinità. Questo dettaglio non è un caso, ma un’ulteriore epifania della natura divina di Cristo. Con questa scena, l’evangelista Luca ci vuole manifestare non solo che Gesù è un bambino eccezionale, ma che la sua missione è già in atto, anche se ancora in forma nascosta. Qui assistiamo all'evidenza della piena maturità di Gesù, ancor prima del raggiungimento dei tredici anni e che si manifesta attraverso la sua capacità di insegnare, esclusiva di un maestro. Solitamente, nella mentalità antica ebraica, nessuno doveva insegnare prima dei trent'anni, dopo un periodo di silenzioso studio. 

Il cuore del passaggio evangelico è la risposta che Gesù dà a Maria e Giuseppe, quando lo ritrovano nel Tempio: "Perché mi cercavate? Non sapevate che è opportuno che io mi dedichi alle cose che sono del Padre mio?" Con queste parole, Gesù conferma non solo la propria missione, ma anche il suo rapporto unico con il Padre. Il suo compito non è solo quello di essere il Figlio di Maria e Giuseppe, ma di compiere la volontà del Padre. Tale compito è salvare, redimere l'umanità dal peccato originale. Questo è un richiamo a quella missione che, più tardi, troverà il suo compimento nella Passione e nella Croce. La menzione dei tre giorni di ricerca, infatti, rimanda velatamente ai tre giorni che separano la crocifissione dalla risurrezione di Gesù. L’ansia dei genitori, la loro ricerca e il ritrovamento di Gesù nel Tempio sono prefigurazioni del dolore che Maria vivrà durante la Passione e la gioia che proverà al mattino di Pasqua. Inoltre, il Tempio, luogo in cui Gesù viene ritrovato, è non a caso anche il luogo del Sacrificio: la Croce diverrà la nuova ed eterna cattedra del Divin Maestro. 

Inoltre, questo episodio ha una forte valenza pedagogica per la Chiesa, che vede nella Santa Famiglia il modello di ogni famiglia cristiana. La famiglia di Nazareth, pur trovandosi di fronte a una situazione che suscita ansia e preoccupazione, è al contempo un esempio di fede e di obbedienza alla volontà di Dio. In essa, Maria e Giuseppe, pur vivendo una tensione interna tra l’amore materno e paterno verso Gesù e la consapevolezza della sua missione divina, sanno accogliere con umiltà e fiducia il disegno di Dio. In questo, la famiglia cattolica è chiamata a essere un luogo di accoglienza e di crescita spirituale, dove ciascun membro, pur nella propria individualità, è sempre pronto a conformarsi alla volontà di Dio. La famiglia è un luogo in cui la fede si trasmette e si vive, un piccolo tempio in cui si rispecchia il disegno salvifico di Dio per l’uomo. La risposta di Gesù, quindi, non è solo un'affermazione della sua missione personale, ma anche un richiamo alla vocazione di ogni famiglia cristiana: quella di orientarsi verso il disegno divino, anche quando questo richiede sacrificio e discernimento, e di guidare la crescita dei figli secondo tre parametri fondamentali: sapienza, età (cioé maturità psico-affettiva), e grazia, davanti a Dio innanzitutto, ma anche dinanzi agli uomini.

Infine, la difficoltà di Maria nel comprendere la risposta di Gesù, pur essendo lei Immacolata e quindi priva degli effetti del peccato originale, è un aspetto che merita una riflessione profonda. Secondo la dottrina cattolica, Maria ha vissuto una vita senza peccato, incluso quello veniale, ma non possedeva una conoscenza infinita. La sua purezza e santità non le conferivano l'onniscienza, che è un attributo esclusivo di Dio. Maria ha vissuto una vita di fede e umiltà, crescendo nella comprensione del mistero divino attraverso la preghiera, il digiuno, la meditazione e l'elemosina. Anche se era piena di grazia e aveva una relazione unica con Dio, la sua conoscenza e comprensione dei Misteri divini si svilupparono nel tempo. Maria godeva certamente dei doni soprannaturali della scienza, dell'intelletto e della sapienza al massimo grado, ma questo non vuol dire che Maria era onnisciente. Il vangelo, infatti, dice anche che ella meditava sulle parole di Gesù: i doni dello Spirito Santo, in lei infusi con perfezione, le permisero di comprendere direttamente e in maniera ottimale cosa il Signore era venuto a svolgere su questa terra, e quale ruolo aveva anche lei in questo disegno di perfetta carità.

Gaetano Masciullo

domenica 5 gennaio 2025

Epifania: il Signore si rivela alle Genti

 

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum 2, 1-12.
Cum natus esset Iésus in Béthlehem Iuda, in diébus Heródis regis, ecce Magi ab Oriénte venérunt Ierosólymam, dicéntes: Ubi est qui natus est rex Iudaeórum? Vídimus enim stellam eius in Oriénte, et vénimus adoráre eum. Áudiens áutem Heródes rex, turbátus est, et omnis Ierosólyma cum illo. Et cóngregans omnes príncipes sacerdótum, et scribas pópuli, sciscitabátur ab eis, ubi Christus nascerétur. At illi dixérunt ei: In Béthlehem Iudae: Sic enim scriptum est per Prophétam: Et tu, Béthlehem terra Iuda, nequáquam mínima es in princípibus Iuda: ex te enim éxiet dux, qui regat pópulum meum Israël. Tunc Heródes, clam vocátis Magis, diligénter dídicit ab eis tempus stellae, quae appáruit eis: et míttens illos in Béthlehem, dixit: Ite, et interrogáte diligénter de púero: et cum invenéritis, renuntiáte mihi, ut et ego véniens adórem eum. Qui cum audíssent regem, abiérunt. Et ecce stella, quam víderant in Oriénte, antecedébat eos, usque dum véniens, staret supra, ubi erat puer. Vidéntes áutem stellam, gavísi sunt gáudio magno valde. Et intrántes domum, invenérunt púerum cum Maria matre eius et procidéntes adoravérunt eum. Et apértis thesáuris suis obtulérunt ei múnera, áurum, thus, et myrrham. Et respónso accépto in somnis, ne redírent ad Heródem per áliam viam revérsi sunt in regiónem suam.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 2, 1-12.
Nato Gesù, in Betlemme di Giuda, al tempo del re Erode, ecco arrivare dei Magi dall’Oriente a Gerusalemme, chiedendo: "Dov’è nato il Re dei Giudei? Abbiamo visto infatti la sua stella in Oriente e siamo venuti per adorarlo". Avendo dunque ascoltato, il re Erode si turbò, e con lui tutta Gerusalemme. E radunati tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, voleva sapere da loro dove doveva nascere il Cristo. E quelli gli dissero: "In Betlemme di Giuda: così, infatti, è stato scritto per mezzo del Profeta: E tu, Betlemme, in terra di Giuda, non sei la minima tra i principati di Giuda: da te, infatti, uscirà il condottiero che reggerà il mio popolo, Israele". Allora Erode, chiamati a sé di nascosto i Magi, si fece dire in maniera dettagliata il momento in cui la stella era loro apparsa. Inviatili a Betlemme, disse: "Andate, e cercate con attenzione il bambino e, quando lo avrete trovato, fatemelo riferire, affinché anch'io venga ad adorarlo". Quelli, dopo aver ascoltato il re, partirono. Ed ecco che la stella, che avevano visto in Oriente li precedeva, finché, arrivata sopra il luogo dov’era il bambino, si fermò. Vista dunque la stella, i Magi ebbero grandissima gioia, ed entrati nella casa trovarono il bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono. E aperti i loro scrigni, gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non passare da Erode, tornarono nel proprio paese per un'altra via.

L’Epifania del Signore celebra la manifestazione della divinità di Cristo alle Genti, rappresentate dai Magi, uomini sapienti persiani, provenienti dall’Oriente. Questo episodio ci invita a riflettere su alcune verità molto importanti della fede cristiana.

La visita dei Magi è, infatti, il primo segno tangibile che Gesù non è solo il Messia di Israele, ma il Salvatore di tutti i popoli. I Magi, che non conoscevano ancora il vero Dio così come si era rivelato ai patriarchi e ai profeti israeliti, sono mossi da una fame di verità che li porta a percorrere un cammino incredibilmente lungo e faticoso per poter incontrare finalmente il Re dei Giudei. Questo è il simbolo della chiamata universale di Cristo: Egli vuole rivelarsi a ogni uomo, di qualunque nazione o cultura, perché tutti possano partecipare alla sua salvezza.

La manifestazione di Gesù ai Magi è una chiara testimonianza dell’amore universale di Dio. Egli ama tutti, cioé vuole che tutti giungano alla conoscenza della verità e, per mezzo di essa, essere liberati dal peccato e dunque salvati. In Cristo, Dio si dona senza riserve, desideroso che nessuno si perda. Questo ci richiama al nostro dovere missionario: come i Magi hanno ricevuto il dono della conoscenza di Cristo, così anche noi siamo chiamati a portare questa luce a chi ancora vive nell’ignoranza del Vangelo.

I Magi sono uomini di scienza, molto probabilmente astronomi. Essi rappresentano la ragione che cerca Dio, dimostrando così che non c’è opposizione tra fede religiosa e cultura. La filosofia e la scienza, se condotte con rettitudine, non possono che condurre a Cristo, il quale è la fonte di ogni verità, anzi come Egli stesso ha rivelato, è la stessa Verità. Questo è un insegnamento prezioso: i Magi cercano e trovano Cristo tramite la loro ricerca intellettuale, ma una volta trovata la Verità, la via privilegiata diventa l’umiltà, virtù principe rappresentata bene dai pastori, e la vita nello Spirito Santo, incarnata dai due profeti, Anna e Simeone, che Maria e Giuseppe avevano trovato nel Tempio, quaranta giorni dopo la nascita di Gesù, in occasione della Presentazione e della Purificazione della Madre. Così, la fede integra e perfeziona la ragione, senza mai contraddirla.

Molti si sono interrogati sulla natura della stella che guida i Magi: un fenomeno astronomico reale o una manifestazione angelica? La risposta è meno importante del suo significato. La stella rappresenta quella luce interiore che Dio accende nel cuore di ogni uomo, il desiderio di incontrare il Creatore e che predispone a un cammino, spesso lungo e persino tortuoso. Ogni uomo, anche senza conoscere il Vangelo, porta in sé una scintilla che lo orienta verso Dio, la Verità suprema. Solo la Chiesa, tuttavia, è capace di mostrare all'uomo in ricerca la cartina da seguire per giungere alla salvezza.

I Magi, dunque, si recano a Gerusalemme, al cospetto di Erode, per chiedere informazioni su questo Re appena nato. Questo gesto, apparentemente ingenuo, è in realtà un atto al contempo di semplicità e di fede: essi non temono il potere mondano, perché cercano il Regno di Dio. La Chiesa oggi sembra attraversare un periodo oscuro, dominata da correnti neo-moderniste che paiono opporsi al vero spirito cristiano. Erode era di origini pagane (era un edomita, educato secondo la religione ebraica), che pure sedeva sul trono di Giudea sotto la protezione dei romani. Come Dio, dunque, ha guidato i Magi verso una via sicura per tornare a casa, così la Provvidenza non abbandonerà mai il suo popolo. A tempo debito, Dio agirà per riportare la Chiesa alla sua missione autentica.

Veniamo dunque ai doni che i Magi portano a Gesù. Essi portano in sè un significato allegorico molto importante. Oro, incenso e mirra non sono soltanto doni preziosi: l’oro proclama la regalità di Cristo, l’incenso la sua divinità, e la mirra, utilizzata per l’unzione dei morti, prefigura il suo sacrificio redentore, nel quale il Signore sarà al contempo il sacerdote che offre e la vittima che viene offerta. I Magi riconoscono nel Bambino la pienezza della sua missione: Re, Dio e Sacerdote.

L’Epifania ci ricorda che Dio si manifesta a chi lo cerca con cuore sincero, e soprattutto che è possibile raggiungerlo con la ragione, come insegna solennemente anche il Concilio Vaticano Primo. La luce di Cristo illumina ogni uomo che viene nel mondo, e il suo messaggio di salvezza è universale, un invito rivolto a tutti a partecipare al Regno dei cieli. Come i Magi, siamo chiamati a lasciarci guidare da questa luce, superando le tenebre del peccato e confidando nella Provvidenza divina.

Gaetano Masciullo

martedì 31 dicembre 2024

Ottava di Natale: un altro sguardo alla Croce

Sequéntia S. Evangélii secundum Lucam 2, 21.

In illo témpore: Postquam consummáti sunt dies octo, ut circumciderétur puer: vocátum est nomen eius Iesus, quod vocátum est ab Ángelo priúsquam in útero conciperétur.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 2, 21.

In quel tempo, dopo che furono trascorsi otto giorni, affinché il bambino fosse circonciso, fu chiamato con il nome Gesù, come era stato chiamato dall’Angelo prima di essere concepito nel grembo.

Nella liturgia dell'Ottava di Natale, emergono in maniera evidente due Misteri della salvezza tra loro intrecciati: la circoncisione di Cristo e il Nome Santo di Gesù. Nell'Antico Testamento, Dio ordinò al patriarca Abramo di circoncidere tutti i primogeniti maschi del popolo ebraico: "Da parte tua devi osservare la mia alleanza, tu e la tua discendenza dopo di te di generazione in generazione. Questa è la mia alleanza che dovete osservare, alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso tra di voi ogni maschio. (...) Quando avrà otto giorni, sarà circonciso tra di voi ogni maschio di generazione in generazione. (...) Il maschio non circonciso, di cui cioè non sarà stata circoncisa la carne del membro, sia eliminato dal suo popolo: ha violato la mia alleanza" (Gn 17,9-10.12a.14).

La circoncisione fu ordinata da Dio come immagine del Battesimo. Questa pratica non deve essere intesa solo come una misura igienica: essa ha un profondo significato teologico e mistagogico. Non è possibile comprendere il senso profondo della pratica della circoncisione se non si fa riferimento alla dottrina del peccato originale, cioé la superbia dell'intelletto da parte di Adamo ed Eva che ha degradato tutta la natura umana e che viene trasmesso, come una tara genetica, da padre in figlio. 

In tal senso, la circoncisione dell'organo maschile deputato alla generazione di altri esseri umani, che quindi vengono concepiti nello stesso peccato originale, prefigura il sacramento del Battesimo che sarà poi istituito da Cristo, poiché quest'ultimo applica i meriti della Croce al credente e lo libera dagli effetti del peccato originale. Il sanguinamento della circoncisione (e in particolare quello della circoncisione di Gesù neonato) prefigura il sangue salvifico di Cristo sulla Croce. 

La Chiesa ha insegnato che, anche se gli ebrei circoncisi erano salvati dalle conseguenze eterne del peccato originale, tuttavia non poterono entrare dopo la loro morte immediatamente nel Regno dei Cieli. Essi dovettero attendere la discesa agli inferi di Cristo, avvenuta il sabato santo, che aprì le porte del Cielo alle anime dei giusti patriarchi, che si trovavano negli inferi nel cosiddetto limbo dei padri o "seno di Abramo". Il Paradiso rimase chiuso per tutti fino a quel momento.

Con queste parole san Tommaso d'Aquino spiega il sacramento veterotestamentario della circoncisione: "La circoncisione - egli scrive - che si faceva tramite l’asportazione della membrana carnale del membro della generazione, significava lo spogliarsi della vecchia generazione. E da questa [generazione] vecchia siamo liberati mediante la passione di Cristo" (cfr. S.Th. III, q. 37, a. 1, ad 1). Spogliarsi della vecchia generazione significa appunto liberarsi dalla carne concepita nel peccato originale e proiettarsi verso il corpo glorioso e risorto futuro.

Per quanto riguarda il secondo Mistero sul quale dobbiamo meditare, cioé il Mistero del Nome di Gesù, esso significa in ebraico e nella sua variante aramaica antica "Dio salva" (Yeshua). Questo nome fu imposto dapprima alla Vergine Maria da Dio stesso, per mezzo dell'arcangelo san Gabriele, al momento dell'Annunciazione: "Ed ecco, concepirai nel tuo grembo e darai alla luce un figlio, e gli porrai nome Gesù" (Luca 1, 31); e poi anche a san Giuseppe: "[Maria] partorirà un figlio e tu gli porrai nome Gesù, perché egli salverà il suo popolo dai loro peccati" (Matteo 1, 21). Tale nome, dunque, è perfettamente appropriato alla missione redentrice del Verbo incarnato, sottolineando la connessione tra la persona che lo porta e l'opera di salvezza.

Il nome stesso di Gesù confuta e protesta contro i tanti teologi che negano la missione terrena del Signore, cioé va contro tutti coloro che sostengono che Gesù sia stato soltanto un grande profeta, un grande filosofo, un grande personaggio della storia, e non già il Salvatore dell'umanità. Anche tanti teologi sedicenti cattolici, purtroppo, negano che Gesù si sia incarnato per volontà del Padre con la missione esplicita e consapevole di morire sulla Croce  come vittima perfetta di espiazione per salvarci dal peccato, anzitutto quello originale e poi anche quelli personali, e per istituire poi la Chiesa visibile su Pietro, con i suoi sette sacramenti, per applicare a tutti gli uomini i meriti della Redenzione. Ecco perché san Pietro ribadirà: "Non c'è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (Atti 4, 12). 

Nel linguaggio antico, il nome indica anche l'autorità, cioé la fonte del potere. Questo modo di intendere il termine 'nome' è rimasto anche nel linguaggio comune. Si pensi a quando un ufficiale dice: "Nel nome della legge, la dichiaro in arresto", cioé: "Per l'autorità conferitami dalla legge". Allora quando la Chiesa agisce nel nome di Gesù, sta dicendo che agisce per l'autorità conferitale da Gesù, che è un'autorità divina. Anche quando iniziamo la preghiera nel nome della Trinità, stiamo implicitamente affermando che possiamo pregare per l'autorità concessaci da Dio uno e trino.

Gaetano Masciullo

sabato 28 dicembre 2024

Anna la profetessa: il dettaglio biblico che rivela il destino della Chiesa

Sequéntia sancti Evangélii secundum Lucam 2, 33-40

In illo témpore: Erat Ioseph et María Mater Iesu, mirántes super his quæ dicebántur de illo. Et benedíxit illis Símeon, et dixit ad Maríam Matrem eius: Ecce, pósitus est hic in ruínam et in resurrectiónem multórum in Israël: et in signum, cui contradicétur: et tuam ipsíus ánimam pertransíbit gládius, ut reveléntur ex multis córdibus cogitatiónes. Et erat Anna prophetíssa, fília Phánuel, de tribu Aser: hæc procésserat in diébus multis, et víxerat cum viro suo annis septem a virginitáte sua. Et hæc vídua usque ad annos octogínta quátuor: quæ non discedébat de templo, ieiúniis et obsecratiónibus sérviens nocte ac die. Et hæc, ipsa hora supervéniens, confitebátur Dómino, et loquebátur de illo ómnibus, qui exspectábant redemptiónem Israël. Et ut perfecérunt ómnia secúndum legem Dómini, revérsi sunt in Galilǽam in civitátem suam Názareth. Puer autem crescébat, et confortabátur, plenus sapiéntia: et grátia Dei erat in illo.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 2, 33-40

In quel tempo, Giuseppe e Maria, madre di Gesù, restavano meravigliati delle cose che si dicevano di lui. E Simeone li benedisse, e disse a Maria, sua madre: "Ecco egli è posto per la rovina e per la resurrezione di molti in Israele, e sarà bersaglio di contraddizioni, e una spada trapasserà la tua stessa anima, affinché restino svelati i pensieri di molti cuori". C’era inoltre una profetessa, Anna, figlia di Fanuel, della tribù di Aser, molto avanti negli anni, vissuta per sette anni con suo marito. Rimasta vedova fino a ottantaquattro anni, non usciva dal tempio, servendo Dio notte e giorno con preghiere e digiuni. E nello stesso tempo ella sopraggiunse, e dava gloria al Signore, parlando di lui a quanti aspettavano la redenzione di Israele. E quando ebbero compiuto tutto secondo la legge del Signore, se ne tornarono in Galilea, nella loro città di Nazaret. E il fanciullo cresceva e si irrobustiva, pieno di sapienza: e la grazia di Dio era con lui.

La nascita di Nostro Signore Gesù Cristo è accompagnata da tre manifestazioni progressive: i pastori nella notte di Betlemme, i profeti Simeone e Anna nel Tempio, e i Magi dall’Oriente. Queste epifanie non avvengono simultaneamente, ma seguono un ritmo che corrisponde a una diversa pedagogia divina.  

Ai pastori, Dio si rivela quasi immediatamente, probabilmente poche ore dopo la nascita, nella semplicità e soprattutto nell'umiltà. Questi non sono gli ignoranti, ma gli anawim, come si dice nell'ebraico biblico, cioé i "poveri in spirito" che attendono il Messia nella fiducia e abbandono totali, anche senza strumenti intellettuali, con un cuore puro. La loro vicinanza al Cristo appena nato rappresenta la risposta pronta e gioiosa di chi, pur nella marginalità, sa riconoscere i segni del cielo.  

Ai profeti nel Tempio, quaranta giorni dopo, Dio si manifesta attraverso la Legge e la santa tradizione. Simeone e Anna rappresentano i colti fedeli che, nella preghiera e nella riflessione, hanno interiorizzato le Scritture e attendono la consolazione di Israele. Questa manifestazione insegna che la fede si nutre non solo di entusiasmo, ma anche di perseveranza e sapienza.  

Ai Magi, infine, Cristo si rivela circa due anni dopo, come luce per i pagani. Essi rappresentano i colti infedeli, uomini di scienza e cultura che non conoscono la Rivelazione, ma che la cercano con rettitudine. La dilazione temporale evidenzia che la comprensione della verità richiede tempo e cammino, specie per chi parte da lontano. Questa pedagogia divina ci insegna che Dio si manifesta a tutti, ma secondo i tempi e le disposizioni di ciascuno: agli umili con immediatezza, ai sapienti con profondità e in perfezione (i quaranta giorni rappresentano la penitenza come preparazione alla ricezione della Legge), ai lontani con pazienza.  

Nel canto di Simeone, il primo dei due profeti che i santi Maria e Giuseppe trovano nel Tempio, dove si recano per ottemperare la Legge di Mosè, si coglie l'importanza del ruolo di Maria, profeticamente indicata come partecipe al dramma della Redenzione: “E anche a te una spada trafiggerà l’anima” (Lc 2, 35). Maria è chiamata spesso dalla Tradizione cattolica "corredentrice", un titolo che non pone in discussione l'unicità dell'opera redentrice di Cristo, ma che sottolinea il suo contributo unico. Questo titolo si fonda su due aspetti: (1) la sua Immacolata Concezione, che la rendeva pienamente libera di accogliere l’Incarnazione e di aderire perfettamente alla volontà divina. Maria non subì il peso del peccato originale e, dunque, fu capace di un amore perfetto per il Figlio e per l'umanità redenta. Ciononostante, ammiriamo la perfetta obbedienza di Maria alla Legge, che volle compiere la purificazione prescritta da Mosè, nonostante la sua integrità originale; (2) la sua sofferenza materna, che la unì intimamente al sacrificio del Figlio. La croce di Maria fu spirituale e morale: ogni dolore di Cristo fu percepito nel cuore della Madre, secondo il vincolo d’amore unico che li univa. La spada profetizzata da Simeone simboleggia questa partecipazione al mistero pasquale, un dolore che, per la sua intensità e purezza, acquisisce un valore corredentore. Ella è la prima dei cristiani che sanno partecipare dei dolori di Cristo, secondo quanto insegna l'apostolo Paolo: "Completo nella mia carne ciò che manca alla Passione di Cristo" (Col 1, 24).  

Maria, con il suo fiat e con la sua offerta silenziosa ai piedi della croce, si fa mediatrice di grazie. Non c'è conflitto tra Cristo, unico Redentore, e Maria, che ne è la cooperatrice più perfetta: come la Chiesa stessa riconosce, tutte le grazie ci giungono attraverso di lei, perché perfetti e sovrabbondanti sono i suoi meriti.  

Anna, profetessa, è descritta con dettagli mistici che nascondono significati profondi. Dietro la figura storica di questa profetessa, infatti, si nasconde un'allegoria preziosissima della Chiesa, che nascerà in Cristo. Si dice, anzitutto, che ha vissuto sette anni di matrimonio: il suo essere rimasta sposa per sette anni rappresenta il compimento perfetto della Chiesa, che è "sposa" di Cristo e che in Lui vede la pienezza della propria vocazione. Dopo la morte dello sposo, Anna vive nella preghiera e nel digiuno, anticipando la missione della Chiesa come comunità orante e penitente. Ancora una volta, come nel Battista, la Parola di Dio indica il triplice atteggiamento della Chiesa: orante, penitente, missionaria. 

Leggiamo che Anna è figlia di Fanuel, della tribù di Aser. I nomi non sono casuali nel piano divino. Il nome Anna significa "grazia". La Chiesa è, in effetti, l'unico sacramento di salvezza per il mondo, cioé l'unico segno e l'unico veicolo di grazia per l'umanità. Non c'è salvezza all'infuori di Cristo, non c'è santità al di fuori della vita sacramentale. Il nome Fanuel significa “volto di Dio”. Qui assistiamo a un rimando biblico molto importante. Tante volte nell'antico testamento si fa riferimento al volto di Dio: ""Fa' risplendere su di noi il tuo volto e saremo salvi" (Salmo 80, 4). Quando Dio creò l'uomo, lo creò a propria immagine e somiglianza. Ora, si dice che un uomo assomiglia a un altro uomo, quando notiamo affinità nel volto. La somiglianza originale tra l'uomo e Dio consiste nel rapporto di grazia, nella carità perfetta. Una somiglianza che il peccato originale ha deturpato, anzi cancellato. Dio in Cristo e nella Chiesa ridona all'uomo il volto di Dio, ciò che lo rende simile a Dio: la grazia.  

Ancora, Anna è della tribù di Aser, una delle dodici tribù di Israele. Il nome Aser significa "felicità", "benedizione", "beatitudine". Esso simboleggia la beatitudine, cioé la santità, che la Chiesa porta al mondo attraverso l’annuncio della salvezza e della grazia. La tribù di Aser ricevette una benedizione speciale sia da Giacobbe che da Mosè. Giacobbe disse: "Pingui saranno i prodotti di Aser che fornirà delizie regali" (Genesi 49, 20). Mosè, invece, benedisse Aser dicendo: "Aser è il più benedetto dei figli di Giacobbe; il più gradito tra i suoi fratelli, tuffa il suo piede nell'olio" (Deuteronomio 33, 24-27). 

In Anna, dunque, l'epifania della natura divina e messianica di Gesù si accompagna all'epifania della natura divina della Chiesa. Sebbene appena nata con l'Incarnazione del Messia, la Chiesa appare già matura nella sua sapienza, e perciò è prefigurata in Anna "molto avanti negli anni": ella è molto anziana, cioé molto sapiente secondo il linguaggio biblico, perché animata, resa viva, dallo Spirito Santo. Come Anna, la Chiesa si dedica alla preghiera, al digiunio e all'annuncio, vivendo nella consapevolezza che solo in Cristo si realizza la salvezza.  

Anna profetizza, perché vede in Cristo il compimento delle promesse fatte a Israele. Così la Chiesa, animata dal medesimo Spirito, continua a proclamare Cristo al mondo, con una sapienza che trascende il tempo e gli eventi. Capiamo pertanto che la Redenzione non è un atto improvviso, ma un processo pedagogico, in cui Dio coinvolge tutti gli uomini, in Maria come corredentrice, nei profeti come testimoni, nella Chiesa come sposa fedele. Cristo è la luce per tutti, ma ciascuno deve riconoscerlo secondo il proprio cammino e la propria disposizione. 

Gaetano Masciullo


mercoledì 25 dicembre 2024

Perché ricordare il primo martire subito dopo il Natale?


Sequéntia sancti Evangélii secundum Matthǽum 23, 34-39.

In illo témpore: Dicébat Iesus scribis et pharisǽis: Ecce, ego mitto ad vos prophétas, et sapiéntes, et scribas, et ex illis occidétis et crucifigétis, et ex eis flagellábitis in synagógis vestris, et persequémini de civitáte in civitátem: ut véniat super vos omnis sanguis iustus, qui effúsus est super terram, a sánguine Abel iusti usque ad sánguinem Zacharíæ, filii Barachíæ, quem occidístis inter templum et altáre. Amen, dico vobis, vénient hæc ómnia super generatiónem istam. Ierúsalem, Ierúsalem, quæ occídis prophétas, et lápidas eos, qui ad te missi sunt, quóies vólui congregáre fílios tuos, quemádmodum gallína cóngregat pullos suos sub alas, et noluísti? Ecce, relinquétur vobis domus vestra desérta. Dico enim vobis, non me vidébitis ámodo, donec dicátis: Benedíctus, qui venit in nómine Dómini.

Seguito del Santo Vangelo secondo Matteo 23, 34-39.

In quel tempo, Gesù diceva agli scribi e ai farisei: "Ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi, e di questi ne ucciderete e crocifiggerete, e ne flagellerete nelle vostre sinagoghe, e li perseguiterete di città in città: in modo che ricada su di voi tutto il sangue del giusto, che è stato effuso sulla terra, dal sangue di Abele il giusto fino al sangue di Zaccaria, figlio di Barachia, che avete ucciso tra il tempio e l’altare. In verità, io vi dico: tutte queste cose ricadranno su questa generazione. Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che a te sono stati inviati, quante volte ho voluto radunare i tuoi figli, come la gallina raduna i propri pulcini sotto le ali, e non hai voluto? Ecco, a causa vostra la vostra casa sarà lasciata deserta. Vi dico, infatti, che non mi vedrete più, fino a quando non diciate: Benedetto colui che viene nel nome del Signore".

In memoria di santo Stefano, protomartire, cioé primo tra i martiri della Chiesa, la Chiesa proclama una pagina di vangelo molto dura, oggi diremmo "politicamente (o clericalmente) scorretta". Cristo non teme di denunciare apertamente l’ostinazione di Gerusalemme, simbolo del rifiuto dell’umanità tutta, ma in particolare degli eletti, alla verità divina, e preannuncia il destino dei suoi inviati. Questo monito è una dichiarazione profetica della persecuzione che dovranno subire i suoi discepoli e, allo stesso tempo, una chiamata alla responsabilità che ciascuno deve assumersi di fronte alla Rivelazione divina.

Il linguaggio di Cristo è diretto e duro: accusa coloro che, per varie ragioni terrene, si oppongono alla Verità incarnata e perseguitano chi la proclama. Bisogna tener presente, tuttavia, che impugnare la verità conosciuta è un peccato contro lo Spirito Santo, che è tra i più gravi che vi siano in assoluto. Questo atteggiamento di denuncia e di condanna da parte di Gesù è lontano dal sentimentalismo o dal relativismo che spesso permeano la nostra società contemporanea, dove parlare di peccato, giudizio e responsabilità personale è considerato scomodo o divisivo, persino nella Chiesa. Gesù non teme, invece, di rivelare la gravità del rifiuto della grazia, mettendo in guardia contro le conseguenze eterne di questa scelta.

“Io mando a voi profeti…”: queste parole manifestano il cuore divino di Nostro Signore Gesù Cristo. Il Signore non parla come un semplice profeta, ma come Dio stesso. Dicendo “Io mando a voi…”, afferma implicitamente la propria natura divina, sottolineando che egli è il vero Autore della missione dei profeti e degli apostoli. Questo è particolarmente significativo nel tempo natalizio, che celebra il mistero dell’Incarnazione: il Bambino nato a Betlemme è Dio fatto uomo, il Verbo eterno che viene a salvare, ma che sarà rifiutato e condotto alla croce.

Se diamo attenzione al calendario liturgico cattolico-romano tradizionale subito dopo il Natale, notiamo delle ricorrenze particolari. Subito dopo la celebrazione della nascita del Salvatore, infatti, la Chiesa ci invita a riflettere sul mistero del martirio, proponendoci una sequenza dal profondo significato: santo Stefano: martire nel corpo e nello spirito, che testimonia con la sua vita e la sua morte la fedeltà a Cristo fino all’effusione del sangue; san Giovanni Evangelista: martire nello spirito ma non nel corpo, che pur non subendo il martirio fisico, visse gravi persecuzioni per la sua totale consacrazione alla diffusione del vangelo; santi Innocenti: martiri nel corpo ma non nello spirito, vittime della crudeltà di Erode e immagine della lotta tra il potere terreno e il Regno di Dio; san Thomas Becket: martire nello spirito e nel corpo, come santo Stefano, è la prima grande vittima degli abusi di stato nella storia cristiana e testimonia l’opposizione tra il potere temporale che rifiuta Dio e la libertà della Chiesa.

Questa successione liturgica non è casuale, ma illumina il profondo legame tra il Natale e il martirio. Il Natale non è solo la celebrazione della nascita di un Bambino, ma l’irruzione del Regno di Dio nella storia, una realtà che provoca inevitabilmente una reazione da parte delle forze del male. Il martirio è la risposta ultima e radicale all’amore di Dio: un amore che si dona totalmente, fino al sacrificio supremo.

Il Natale e il martirio sono uniti dalla logica della Croce. Cristo nasce per morire e risorgere, e coloro che lo seguono sono chiamati a partecipare alla sua missione redentrice, anche a costo della vita. Santo Stefano ci ricorda che la fede non è una via facile o comoda, ma un cammino di fedeltà che può richiedere il dono totale di sé. Questo ci interpella profondamente: siamo disposti ad accogliere Cristo nella nostra vita, anche quando ci chiede di portare la croce del sacrificio, del rifiuto o della persecuzione?

Gaetano Masciullo

La poca fede degli israeliti contro la grande fede dei pagani?

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum 8, 1-13. In illo témpore: Cum descendísset Iesus de monte, secútae sunt eum turbae multae: et ecce...