sabato 28 settembre 2024

Cosa significa diventare come bambini?

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 18, 1-10

In illo témpore: Accessérunt discípuli ad Iesum, dicéntes: Quis, putas, maior est in regno cœlórum? Et ádvocans Iesus párvulum, státuit eum in médio eórum et dixit: Amen, dico vobis, nisi convérsi fuéritis et efficiámini sicut párvuli, non intrábitis in regnum cœlórum. Quicúmque ergo humiliáverit se sicut párvulus iste, hic est maior in regno cœlórum. Et qui suscéperit unum párvulum talem in nómine meo, me súscipit. Qui autem scandalizáverit unum de pusíllis istis, qui in me credunt, expédit ei, ut suspendátur mola asinária in collo eius, et demergátur in profúndum maris. Væ mundo a scándalis! Necésse est enim, ut véniant scándala: verúmtamen væ hómini illi, per quem scándalum venit! Si autem manus tua vel pes tuus scandalízat te, abscíde eum et proiíce abs te: bonum tibi est ad vitam ingrédi débilem vel claudum, quam duas manus vel duos pedes habéntem niitti in ignem ætérnum. Et si óculus tuus scandalízat te, érue eum et proiice abs te: bonum tibi est cum uno óculo in vitam intráre, quam duos óculos habéntem mitti in gehénnam ignis. Vidéte, ne contemnátis unum ex his pusíllis: dico enim vobis, quia Angeli eórum in cœlis semper vident fáciem Patris mei, qui in cœlis est.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 18, 1-10

In quel tempo, si presentarono a Gesù i discepoli e gli dissero: "Chi consideri il più grande nel regno dei cieli?" E Gesù, chiamato a sé un fanciullo, lo pose in mezzo ad essi e rispose: "In verità vi dico che, se non vi convertirete e non diverrete come fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli. Quindi, chiunque si farà piccolo come questo fanciullo, questi sarà il più grande nel regno dei cieli. E chiunque accoglierà nel nome mio un fanciullo come questo, accoglie me stesso. Chi poi scandalizzerà uno di questi piccoli, che credono in me, sarebbe meglio per lui che gli fosse appesa al collo una macina d’asino e fosse immerso nel profondo del mare. Guai al mondo per gli scandali. Poiché è inevitabile che vi siano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale viene lo scandalo. Che se la tua mano e il tuo piede ti è di scandalo, troncali e gettali via da te: è meglio per te entrare nella vita monco o zoppo, che essere gettato nel fuoco eterno con tutte e due le mani o i piedi. E se il tuo occhio ti è di scandalo, cavalo e gettalo via da te: è meglio per te entrare nella vita con un solo occhio, che essere gettato nel fuoco della Geenna con due occhi. Guardatevi dal disprezzare qualcuno di questi piccoli: vi dico che i loro angeli nei cieli vedono sempre il volto del Padre mio che è nei cieli.

Gesù ci offre oggi una lezione di vita spirituale profonda attraverso l’immagine del bambino e la sua relazione con il Regno dei cieli. Riflettiamo su tre elementi fondamentali presenti nel testo: l'umiltà, lo scandalo e la penitenza, con un’attenzione particolare al legame tra l'umiltà cristiana e la necessaria mortificazione.

Nei primi versetti, i discepoli chiedono a Gesù chi sia il più grande nel Regno dei cieli. Il Signore risponde chiamando un bambino e ponendolo in mezzo a loro, dicendo che solo chi si farà piccolo come lui entrerà nel Regno. Il simbolo del bambino rappresenta l’umiltà e la dipendenza completa da Dio. Ma è importante distinguere ciò che Gesù ci chiede di imitare dalla semplice infanzia spirituale. Il bambino, in questo contesto, non rappresenta l'immaturità della fede o la superficialità nell'essere cristiani, ma piuttosto la capacità di fidarsi totalmente del Padre celeste, senza pretesa di grandezza o orgoglio. In un'epoca in cui l'ambizione e il desiderio di potere dominano spesso i cuori, Gesù ci chiama a una "infanzia spirituale" fatta di abbandono e fiducia incondizionata in Dio. Non si tratta di rimanere immaturi nella fede, ma di abbracciare con piena consapevolezza l'umiltà come via alla santità.

Nei versetti successivi, il discorso di Cristo si fa più duro, e affronta la questione dello scandalo. Secondo la dottrina cattolica, lo scandalo è tutto ciò che induce un altro al peccato, è una ferita inflitta alla carità. Gesù ammonisce con estrema serietà chi diventa causa di scandalo per i piccoli, dicendo che sarebbe meglio per lui essere gettato in mare con una macina al collo. È un richiamo forte alla responsabilità personale: dobbiamo vigilare attentamente su noi stessi, per non diventare motivo di inciampo per gli altri. Qui emerge la necessità della penitenza e della mortificazione. Gesù ci invita a tagliare dalla nostra vita tutto ciò che ci porta al peccato, con un linguaggio iperbolico ma chiaro: "Se la tua mano o il tuo piede ti è occasione di peccato, taglialo e gettalo via". La penitenza e la mortificazione non sono pratiche ascetiche arcaiche, ma strumenti necessari per combattere le nostre tendenze corrotte, frutto del peccato originale. La mortificazione, che è la rinuncia volontaria a qualcosa per amore di Dio, ci libera dalle passioni disordinate e ci rende più capaci di seguire Cristo con cuore puro.

Infine, Gesù esorta i discepoli a non disprezzare i "piccoli", perché i loro angeli vedono sempre la faccia del Padre che è nei cieli. C'è un legame profondo tra l'umiltà del bambino e la necessità della mortificazione. Solo l'umile riconosce di essere in costante pericolo di cadere nel peccato e comprende la necessità di mortificare se stesso. Chi si fa "piccolo" agli occhi di Dio, infatti, comprende che solo attraverso il sacrificio e la rinuncia si può crescere nella vita spirituale. L’umiltà non è solo una virtù interiore, ma si esprime in atti concreti di penitenza, di rinuncia al proprio io, e nel desiderio di conformarsi sempre più a Cristo.

Gaetano Masciullo

sabato 21 settembre 2024

Alzati e cammina... verso Dio

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum, 9, 1-8.

In illo témpore: Ascéndens Iesus in navículam, transfretávit et venit in civitátem suam. Et ecce offerébant ei paralyticum iacéntem in lecto. Et videns Iesus fidem illórum, díxit paralytico: Confíde, fíli, remittúntur tibi peccáta tua. Et ecce quidam de scribis dixérunt intra se: Hic blasphémat. Et cum vidísset Iesus cogitatiónes eórum, dixit: Ut quid cogitátis mala in córdibus vestris? Quid est facílius dícere: Dimittúntur tibi peccata tua, an dícere: Surge et ámbula? Ut áutem sciátis, quia Fílius hóminis habet potestátem in terra dimitténdi peccáta, tunc ait paralytico: Surge, tolle lectum tuum, et vade in domum tuam. Et surréxit, et ábiit in domum suam. Vidéntes áutem turbae timuérunt, et glorificavérunt Deum, qui dedit potestátem talem homínibus.

Seguito dal Vangelo secondo Matteo, 9, 1-8.

In quel tempo, Gesù, salito su una barca, ripassò il lago e andò nella sua città. Quando ecco che gli presentarono un paralitico giacente nel letto. Veduta la loro fede, Gesù disse al paralitico: “Figlio, abbi fede: ti sono perdonati i tuoi peccati”. Subito alcuni scribi dissero in cuor loro: “Costui bestemmia”. E Gesù, avendo visto i loro pensieri, rispose: “Perché pensate male in cuor vostro? Cos’è più facile dire: ‘Ti sono perdonati i tuoi peccati’, o dire: ‘Alzati e cammina?’. Ora, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sopra la terra di rimettere i peccati: Alzati – disse al paralitico – prendi il tuo letto e vattene a casa tua”. E quegli si alzò e se ne andò a casa sua. Vedendo ciò, le turbe si intimorirono e glorificarono Iddio che diede agli uomini tanto potere.

Nel commento a questa sequenza di Matteo, proclamato nella liturgia tradizionale della XVIII Domenica dopo Pentecoste, la Chiesa ci presenta un evento che rivela la potenza salvifica di Cristo: la guarigione del paralitico. Questo miracolo non è solo un atto di compassione verso il corpo afflitto, ma è soprattutto una dimostrazione della sua autorità divina di perdonare i peccati. Gesù, con questo gesto, manifesta il mistero della sua duplice natura, divina e umana, e il suo potere redentore.

Come suggerito dai Padri e Dottori della Chiesa, questi episodi di guarigione corporale non vanno letti come semplici cronache storiche, ma come simboli mistici del cammino di perfezionamento spirituale dell'uomo verso Dio. Il paralitico, pur rimanendo consapevole di sé e del mondo intorno a lui, è un individuo che non può muoversi. Questa immobilità fisica è un'immagine del peccato, che paralizza l’anima, impedendole di muoversi verso Dio e di compiere opere di bene. Solo l'incontro con Cristo, che conosce i più intimi pensieri del cuore, può restituire all'anima la sua libertà.

Gesù, nel vedere la fede di coloro che portano il paralitico, gli concede subito il perdono dei peccati, mostrando la priorità del ristabilimento spirituale rispetto a quello fisico. Tuttavia, gli scribi presenti non comprendono la portata di questo gesto. Sapendo che solo Dio può perdonare i peccati, essi accusano Gesù di blasfemia. In risposta, Cristo compie il miracolo della guarigione fisica per dimostrare la verità delle sue parole: "Ma, perché sappiate che il Figlio dell’uomo ha il potere sulla terra di rimettere i peccati... Alzati, prendi il tuo lettuccio e va' a casa tua". Il miracolo visibile conferma la realtà invisibile del perdono spirituale.

Questa scena evangelica ci insegna che la fede in Cristo non si limita alla semplice osservazione di miracoli esteriori. La guarigione fisica, pur importante, è solo un segno che rimanda alla guarigione più profonda e necessaria, quella dell'anima. Gesù, infatti, attraverso i miracoli, cerca di farci comprendere una verità superiore: il suo potere divino di salvarci dal peccato e di donarci la grazia della vita eterna. Il peccato è come una catena che paralizza lo spirito, rendendoci incapaci di fare il bene e di meritare la vita eterna. Il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda che il peccato mortale ci priva della grazia santificante, quella forza soprannaturale che ci permette di agire con amore autentico, guidati dalla carità. Anche se un’anima in stato di peccato mortale può compiere "buone" opere, queste non hanno valore meritorio agli occhi di Dio, finché non vi sia la riconciliazione tramite il sacramento della confessione.

La guarigione del paralitico diventa quindi un potente simbolo del perdono divino che restituisce all’anima la propria "agilità spirituale", la capacità di muoversi liberamente verso Dio e di compiere opere che meritano la vita eterna. Senza la grazia, infatti, l’uomo è incapace di orientarsi verso il fine ultimo, che è la beatitudine eterna in Dio. Solo con il perdono dei peccati l'anima viene restaurata nella sua dignità e può riprendere il cammino verso la santità. Inoltre, il Vangelo ci mostra come la carità, che è il frutto maturo della fede e della speranza, può nascere e crescere solo in un’anima che vive nella grazia. La vera carità, infatti, non è solo fare il bene in senso umano, ma è fare il bene spinti dall’amore di Dio, un amore che ha come principio la fede in Lui e come sostegno la speranza nella sua promessa di salvezza. È Cristo stesso a dare all’uomo la capacità di agire in modo meritorio, infondendo la sua grazia tramite i sacramenti.

Un ulteriore insegnamento che possiamo trarre da questo episodio è l'importanza della comunità e dell'intercessione reciproca. Il paralitico viene portato a Gesù da altri, segno che la fede e la carità non sono mai solitarie. Anche oggi, il sostegno e la preghiera dei fedeli sono fondamentali per aiutare le anime a incontrare Cristo, soprattutto quelle che, paralizzate dal peccato, non riescono a trovare la via della salvezza da sole. Questo Vangelo, proclamato nella liturgia della XVIII Domenica dopo Pentecoste, è dunque un richiamo potente alla necessità del perdono e della grazia nella vita cristiana. È un invito per ciascuno di noi a riflettere sulla nostra condizione spirituale e a cercare la riconciliazione con Dio, affinché possiamo, come il paralitico, "alzarci" e camminare verso la vita eterna.

Gaetano Masciullo

sabato 14 settembre 2024

Il Cristo, la Legge, l'Amore

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Matthǽum 22, 34-46

In illo témpore: Accessérunt ad Iesum pharisǽi: et interrogávit eum unus ex eis legis doctor, tentans eum: Magíster, quod est mandátum magnum in lege? Ait illi Iesus: Díliges Dóminum, Deum tuum, ex toto corde tuo et in tota ánima tua et in tota mente tua. Hoc est máximum et primum mandátum. Secúndum autem símile est huic: Díliges próximum tuum sicut teípsum. In his duóbus mandátis univérsa lex pendet et prophétæ. Congregátis autem pharisǽis, interrogávit eos Iesus, dicens: Quid vobis vidétur de Christo? cuius fílius est? Dicunt ei: David. Ait illis: Quómodo ergo David in spíritu vocat eum Dóminum, dicens: Dixit Dóminus Dómino meo, sede a dextris meis, donec ponam inimícos tuos scabéllum pedum tuórum? Si ergo David vocat eum Dóminum, quómodo fílius eius est? Et nemo poterat ei respóndere verbum: neque ausus fuit quisquam ex illa die eum ámplius interrogáre.

Seguito del S. Vangelo secondo Matteo 22, 34-46

In quel tempo, i Farisei si avvicinarono a Gesù e uno di essi, dottore della legge, lo interrogò per tentarlo: "Maestro, qual è il grande comandamento della legge?" Gesù gli disse: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo comandamento. Il secondo poi è simile a questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. In questi due comandamenti è racchiusa tutta la Legge e i Profeti". Ed essendo i Farisei radunati insieme, Gesù domandò loro: "Che cosa vi pare del Cristo? Di chi è figlio?" Gli risposero: "Di Davide". Egli disse loro: "Com’è allora che Davide in spirito lo chiama Signore, dicendo: Dice il Signore al mio Signore, siedi alla mia destra, fino a che io non metta i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi? Se dunque Davide lo chiama Signore, com’è egli suo figlio?" E nessuno sapeva rispondergli, né da quel momento in poi vi fu chi ardisse interrogarlo.

Questa meravigliosa pagina di vangelo ci mostra, in tutta la sua profondità, come la Legge e il Cristo siano fortemente connessi l'una all'altro. I farisei, nel tentativo di metterlo alla prova, gli chiedono quale sia il comandamento più grande all'interno della Legge, cioé dei primi cinque libri della Sacra Scrittura, che noi oggi chiamiamo Pentateuco. La risposta di Cristo è di una profondità e di una bellezza straordinaria: "Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il tuo prossimo come te stesso". Gesù, con questa risposta, non solo riassume tutta la Legge, ma rivela anche il suo compimento perfetto in se stesso.

Infatti, quando Cristo afferma che il primo comandamento è amare Dio con tutto il cuore, tutta l'anima e tutta la mente, sta indicando una priorità assoluta che supera qualsiasi altra prescrizione: l'adorazione e il servizio a Dio sono al centro della vita umana. E devono rimanere tali. Tuttavia, egli subito collega questo comandamento all'amore per il prossimo, mostrando che la vera adorazione non è mai disgiunta dall'amore concreto verso gli altri. Cristo, quindi, ci insegna che ogni atto di amore fraterno è, in realtà, una forma di culto reso a Dio. Amare il prossimo come se stessi non è solo una questione di etica sociale, ma un riflesso del comandamento più grande: l’amore per Dio si manifesta e si completa nel dono di sé agli altri. Di più: solo amando Dio più di se stesso e con tutto se stesso, si può davvero amare il prossimo come se stesso. In questo modo, Gesù confuta tutti i vari filantropismi e le forme false di amore che predicano la possibilità di fare di bene e di amare il prossimo senza amare anzitutto Dio. 

Il legame tra la Legge e Cristo è qui evidente: la Legge, data da Dio al suo popolo attraverso Mosè, trova il suo senso pieno soltanto in Cristo, che non è venuto per abolirla, ma per portarla a compimento (cfr. Mt 5, 17), e nella Chiesa, suo corpo mistico. La Legge è, per sua natura, una preparazione al Redentore, un "pedagogo" che conduce a Cristo (cfr. Gal 3, 24). In Cristo, la Legge si fa carne, diventa amore incarnato: egli è l’espressione vivente di quella carità perfetta verso Dio e verso il prossimo, e solo seguendo il suo insegnamento è possibile imparare ad amare veramente. Gesù mostra che l’amore di Dio e del prossimo non sono due comandamenti separati, ma un’unica realtà.

La Legge di Dio, con i suoi comandamenti, è via di santità e di perfezione, ma trova il suo significato ultimo in Cristo, che è la Via, la Verità e la Vita (cfr. Gv 14,6). È Cristo, con il suo sacrificio perfetto, a rendere possibile per l’uomo vivere la Legge non come un peso, ma come un'espressione di amore e libertà; non come uno strumento di repressione, ma di liberazione. Come dirà san Paolo, il cristiano è colui che non vive "sotto la Legge", bensì "nella Legge". Per questo, vivere secondo la Legge di Dio è, per il cristiano, imitare Cristo e partecipare della sua vita divina, cioé della vita di grazia nutrita tramite la preghiera e i sacramenti, nella certezza che ogni precetto della Legge è ordinato alla nostra vera felicità e beatitudine eterna.

In un tempo in cui spesso la Legge di Dio è ridotta a una mera opinione soggettiva o a una regola sociale variabile, è fondamentale ritornare al cuore del messaggio evangelico: la Legge di Dio è immutabile, perché riflette la sua natura eterna e perfetta. Vivere la Legge, come ci insegna Cristo, significa abbracciare la croce e seguire l’esempio di un amore radicale e incondizionato che egli ci ha lasciato. Solo attraverso la conformità alla volontà di Dio, espressa nella sua Legge, possiamo giungere alla vera libertà dei figli di Dio e partecipare alla sua gloria eterna.

Gaetano Masciullo

sabato 7 settembre 2024

La Legge ci rende schiavi o signori?

Sequéntia sancti Evangélii secúndum Lucam 14, 1-11.

In illo témpore: Cum intráret Iesus in domum cuiúsdam príncipis pharisæórum sábbato manducáre panem, et ipsi observábant eum. Et ecce, homo quidam hydrópicus erat ante illum. Et respóndens Iesus dixit ad legisperítos et pharisǽos, dicens: Si licet sábbato curáre? At illi tacuérunt. Ipse vero apprehénsum sanávit eum ac dimísit. Et respóndens ad illos, dixit: Cuius vestrum ásinus aut bos in púteum cadet, et non contínuo éxtrahet illum die sábbati? Et non póterant ad hæc respóndere illi. Dicebat autem et ad invitátos parábolam, inténdens, quómodo primos accúbitus elígerent, dicens ad illos: Cum invitátus fúeris ad núptias, non discúmbas in primo loco, ne forte honorátior te sit invitátus ab illo, et véniens is, qui te et illum vocávit, dicat tibi: Da huic locum: et tunc incípias cum rubóre novíssimum locum tenére. Sed cum vocátus fúeris, vade, recúmbe in novíssimo loco: ut, cum vénerit, qui te invitávit, dicat tibi: Amíce, ascénde supérius. Tunc erit tibi glória coram simul discumbéntibus: quia omnis, qui se exáltat, humiliábitur: et qui se humíliat, exaltábitur.

Seguito del S. Vangelo secondo Luca 14, 1-11.

In quel tempo, essendo Gesù entrato in giorno di sabato nella casa di uno dei principali farisei per prendere cibo, questi lo osservavano. Ed ecco che un idropico gli stava davanti. E Gesù prese a dire ai dottori della legge e ai Farisei: "È lecito o no risanare in giorno di sabato?". Ma quelli tacquero. Ed egli, toccatolo, lo risanò e lo rimandò. E disse loro: "Chi di voi, se gli è caduto un asino o un bue nel pozzo, non lo trae subito fuori in giorno di sabato?" E a tali cose non potevano replicargli. Osservando come i convitati scegliessero i primi posti, prese a dir loro questa parabola: "Quando sei invitato a nozze, non metterti al primo posto, perché potrebbe darsi che una persona più ragguardevole di te sia stata pure invitata, e allora quegli che ha invitato te e lui può venire a dirti: Cedigli il posto. E allora occuperai con vergogna l’ultimo posto. Ma quando sarai invitato, va a metterti all’ultimo posto, affinché, venendo chi ti ha invitato, ti dica: Amico, vieni più avanti. Allora ne avrai onore presso tutti i convitati: perché chiunque si innalza, sarà umiliato, e chi si umilia, sarà innalzato".

Nella pagina di vangelo proclamata oggi, Gesù entra nella casa di un capo dei farisei per condividere un pasto in giorno di sabato. Lì si trova di fronte un uomo malato di idropisia, una malattia che provoca l'accumulo di liquidi nel corpo, simbolo di un'esistenza appesantita, gravata da un peso che impedisce il libero movimento. Gesù guarisce l'idropico, nonostante sia sabato, scatenando lo stupore dei farisei, attaccati rigidamente a una lettura superficiale della Legge mosaica.

L'uomo idropico diviene così l'immagine vivida dell'uomo che vive la Legge non come uno strumento di liberazione, ma di repressione: è la condizione spirituale di quei farisei e di tanti cristiani che, ancora oggi, pensano che vivere secondo Dio significhi vivere di opere superficiali, di "giustizia sociale" e filantropia. Proprio come l'idropico è oppresso dal peso del liquido in eccesso, così l'uomo che vive la Legge solo attraverso l'ottica della rigida osservanza esteriore è oppresso da un giogo che lo soffoca e lo paralizza spiritualmente. Gesù, liberando l'idropico, ci insegna che la Legge ha come fine la salvezza dell'uomo, la sua guarigione interiore, la sua santità, e non la sua condanna. Il fine della Legge allora non è tanto un'ortoprassi fine a se stessa, ma la conversione del cuore.

Questa guarigione si collega alla parabola dell'ultimo posto, che segue immediatamente il miracolo, e che apparentemente potrebbe sembrare scollegata. Quando Gesù consiglia di scegliere l'ultimo posto a un banchetto, non sta soltanto parlando di un atteggiamento di umiltà sociale, ma sta toccando un punto cruciale del vivere la Legge e la fede. L'umiltà, infatti, è il metodo d'oro per far sì che la Legge diventi strumento di liberazione, anziché di repressione. L'uomo umile non considera se stesso come la misura del giusto e del vero, ma pone Dio come origine della propria giustizia.

L'umiltà permette di aprire il cuore alla grazia di Dio, riconoscendo la propria condizione di miseria e di bisogno. Solo l'uomo umile, che accetta di sedersi all'ultimo posto, può essere "esaltato", come dice Gesù, perché ha capito che la giustizia non viene dall'osservanza formale delle regole, ma dall'accogliere con fede e amore la volontà di Dio, che è sempre orientata al bene dell'uomo. In altre parole, solo Dio con la sua grazia ci dà la forza di vivere secondo la Legge, anzi di desiderare ciò che Dio desidera: di vivere "nella Legge" anziché "sotto la Legge", come dirà san Paolo.

Gesù ci invita a non essere affetti da idropisia spirituale, appesantiti dal formalismo, ma ad abbracciare l'umiltà che apre alla vera libertà della Legge: quella che guida a Dio e alla sua infinita giustizia.

Gaetano Masciullo

La poca fede degli israeliti contro la grande fede dei pagani?

Sequéntia S. Evangélii secundum Matthaéum 8, 1-13. In illo témpore: Cum descendísset Iesus de monte, secútae sunt eum turbae multae: et ecce...