Nel vangelo di oggi, sono raccontati in sequela due eventi miracolosi di guarigione, che appaiono l'uno indipendente dall'altro, eppure sono collegati da un grande senso spirituale: motivo per cui la Chiesa li proclama entrambi nella stessa domenica.
Il primo episodio è quello di un lebbroso che viene completamente purificato da Gesù. L'evangelista scrive che il lebbroso "adorava" il Cristo, il che ci lascia intuire che quel pover'uomo - pur piagato da una malattia terribile che scarnificava e riduceva le energie e l'aspetto a poco più che a quelle di una larva umana - aveva compreso, per una grazia singolare, che quel Gesù di Nazareth non era un uomo qualunque, ma il Messia promesso a Israele, anzi: l'Incarnazione stessa di Dio, Dio egli stesso. Infatti, nella cultura ebraica, si sapeva bene che solo Dio è degno di adorazione.
E la preghiera di adorazione del lebbroso è esplicita: "Signore [da notare bene che il lebbroso non chiama Gesù Rabbì, "maestro", ma Adonai, "Signore", titolo riservato soltanto a Dio], se vuoi, puoi purificarmi". Gesù prontamente risponde in qualità di Dio: "Lo voglio: sii purificato". All'umile e santamente rassegnata volontà del lebbroso ("...se vuoi...") risponde l'onnipotente e attiva volontà di Dio.
La Chiesa ha letto nell'evento storico della purificazione del lebbroso anche un significato simbolico e spirituale: il lebbroso rappresenta così l'intero Israele, piagato dal peccato - non solo il peccato originale, ma anche (e forse soprattutto) il peccato della superbia e il peccato dell'invidia, che avevano acceccato gli occhi dei farisei e degli scribi, impedendo loro di adorare Gesù come vero Dio.
Eppure, Israele attendeva di essere sanato da Cristo. Da qui il comando di Gesù al lebbroso di mantenere la riservatezza, di conservare la stessa umiltà che aveva meritato il prodigio - "Guarda di non dirlo ad alcuno" - e di attenersi alla Legge di Mosè: "Va, mostrati ai sacerdoti e offri quanto prescritto da Mosè, affinché serva loro da testimonianza". Il riferimento è a quanto prescritto nell'Antico Testamento, in Levititico 14, 1-32, dove si parla di un complesso rituale di sacrifici di riparazione da offrire al Signore, sacrifici che devono essere necessariamente eseguiti dai sacerdoti nel Tempio.
In questo modo, Gesù vuole due cose. La prima cosa è comunicare l'aspetto sacerdotale della redenzione. E' infatti in virtù del suo essere "sacerdote in eterno alla maniera di Melchisedek" che Cristo offre non più sangue di tortore e agnelli, ma il suo stesso sangue - cioè la sua stessa vita - di essere umano a Dio Padre, e riscatta gli uomini di buona volontà dalla lebbra del peccato originale.
La seconda cosa che Gesù vuole comunicare - stavolta ai sacerdoti, cioè alle massime autorità ebraiche - è la sua identità divina. I sacerdoti, infatti, conoscendo le Scritture, avrebbero dovuto comprendere dalla testimonianza del lebbroso e dall'evidenza della guarigione che Gesù fosse il Messia promesso a Israele e che Gesù avesse natura di Dio. E infatti i Dottori di Israele compresero che Gesù fosse Dio, ma per invidia non vollero riconoscerlo e adorarlo.
Allora ecco che a questo dramma si collega il secondo miracolo, quello del servo paralitico del centurione romano. Se le autorità ebraiche dimostrano di non avere fede nel Dio che si rivelò ai loro padri, d'altro canto coloro che sono pagani e ai quali Dio non diede testamento manifestano una fede più meritoria. "Non ho trovato fede così grande in Israele", risponde infatti Gesù estasiato dopo la professione del romano.
E' questo un punto molto interessante. La fede infatti non è un sentimento, ma una virtù infusa da Dio, non conseguibile con le sole forze umane, che consiste nell'adeguamento dell'intelletto alle verità rivelate da Dio. Ma come poteva un romano accettare verità che ignorava? Egli infatti non conosceva il Dio di Israele nè sapeva che doveva venire il Messia nel mondo. Eppure, Gesù dice di lui addirittura di non aver "trovato fede così grande in Israele".
San Tommaso d'Aquino ci spiega che la virtù della fede può essere di due tipi: implicita ed esplicita. Propriamente parlando, la fede è solo quella esplicita, cioè la virtù di chi sa quali siano le verità rivelate da credere e ci crede. Tuttavia, nella Scrittura incontriamo diverse persone che hanno posseduto una fede implicita, cioé, pur sapendo che c'è un dio, hanno intuito con la forza dell'intelletto alcune verità perfettibili con la rivelazione o hanno creduto nella parola del Signore senza comprenderla a fondo. Così scrive il Doctor Angelicus:
Se furono salvati alcuni, ai quali non fu fatta nessuna rivelazione, essi non furono salvati senza la fede nel Mediatore. Infatti, anche se non ebbero una fede esplicita, ebbero tuttavia una fede implicita nella divina provvidenza, poiché credevano che Dio è il liberatore degli uomini nei modi che a lui piacciono e secondo che egli stesso li abbia rivelati a quelli che [già] conoscevano la verità.
Tommaso d'Aquino, Somma di Teologia II-II, q. 2, a. 7, ad 3.
La fede implicita è una predisposizione dell'uomo, ispirata da Dio, a credere in certe verità imperscrutabili ed essere disposti a crederci a prescindere, qualunque esse siano. Il centurione aveva questo tipo di fede: credeva in Dio, nella sua provvidenza e sapeva che Gesù aveva a che fare con lui.
Quando Cristo si lamenta della poca fede di Israele, si riferisce a quelle autorità sacerdotali cui aveva inviato il lebbroso poco tempo prima, le quali dovrebbero avere una fede esplicita nel Messia, eppure peccano di superbia e invidia. Ed ecco il paradosso: la fede implicita del centurione supera la fede esplicita dei sacerdoti.
Da qui la profezia di Cristo sulla Chiesa cattolica e sulla Nuova alleanza di un nuovo sacerdozio eterno: "molti verranno da Oriente e da Occidente e siederanno con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli", cioé la rivelazione non sarà esclusivo appannaggio di Israele, ma di tutti gli uomini di buona volontà.
Gaetano Masciullo
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